Quando c’era la scala mobile e si tutelavano i salari

La scala mobile già esisteva e il valore del “Punto Unico di Contingenza” era differenziato per categoria, livello salariale ed anzianità, direttamente proporzionale allo stipendio. Ma gli effetti dell’inflazione al contrario erano inversamente proporzionali e colpivano molto più duramente i salari più bassi, quelli di chi faticava ad arrivare alla fine del mese ed era costretto o a comprimere i consumi essenziali o ad indebitarsi, rispetto a chi godeva di salari più alti e che disponeva di un margine per consumi voluttuari o addirittura di accantonamenti di risparmi.

Il “punto unico” per tutti – grazie allo storico accordo firmato da Luciano Lama e Gianni Agnelli nel 1975 – rappresentò dunque una grande conquista di equità salariale, potremmo dire l’apice delle conquiste sindacali dal biennio degli autunni caldi del 1968-69 alle giunte rosse della metà degli anni 70. Iniziò allora una campagna martellante contro l’equità, si gridò all’appiattimento salariale e prima ancora che il Punto Unico di Contingenza producesse i suoi frutti, lo stesso Lama, già pentito, nella piattaforma varata all’Eur nel 1977 inaugurò la stagione della moderazione e dei blocchi salariali, con la sciagurata teoria del “salario come variabile dipendente”, non dal caro vita, ma dalla produttività del sistema capitalistico. A mio avviso, questo è l’errore storico del Sindacato Italiano e della Cgil. Da lì si scivolò fatalmente in un’altra teoria ancora più perversa che imputava proprio alla scala mobile la responsabilità dell’inflazione. Il paradigma era stato rovesciato.

Pensate: la scala mobile, che scattava per difendere il potere d’acquisto dei salari dall’inflazione, era diventata la causa dell’inflazione stessa. Quindi non era l’aumento dei prezzi a far scattare la scala mobile, ma era la scala mobile che faceva aumentare i prezzi. Niente di più falso, anche perché se fosse così, oggi, con i salari italiani più bassi d’Europa cui hanno beneficiato i lavoratori italiani nell’ultimo trentennio, addirittura una dinamica negativa, dovremmo avere un’inflazione molto più bassa della media europea. Invece, la nostra inflazione è in media e, se calcolata al lordo delle importazioni – visto che siamo un paese di trasformazione dei prodotti, di materie prime e di energia – è molto più alta che negli altri Paesi. Però, strani scherzi della storia, molti (anche sindacalisti), si lasciarono convincere, e si cominciò a sterilizzare la scala mobile, prima con interventi subdoli di inquinamento del paniere e poi con l’attacco frontale del Governo Craxi, che decretò il blocco temporaneo di quattro punti di contingenza che scattavano nel primo trimestre del 1984 con il “decreto di San Valentino”.

La rottura dell’unità sindacale, ed addirittura la spaccatura dentro la Cgil fra la componente comunista che si opponeva e la componente socialista che sosteneva Craxi ed il blocco della scala mobile, portarono all’esito negativo del successivo referendum e alla definitiva rinuncia alla scala mobile nel 1993. Badate bene: senza che questa rinuncia abbia prodotto miglioramenti sul tasso d’inflazione, a riprova della teoria farlocca. Tanto è vero che il Governo Amato, sul nascere degli anni 90, era stato costretto ad una forte svalutazione della moneta e, a dispetto del blocco salariale, l’inflazione in Italia ed in Europa scese fino ad arrivare sotto il 2% soltanto attraverso un lungo processo di stabilizzazione delle monete europee (SME) e di unificazione monetaria (Euro) e ad un passaggio di poteri decisionali e di controllo dalla politica all’economia e dall’economia alla finanza. Così come oggi, il ritorno dell’inflazione è in modo ancora più evidente il frutto di turbolenze e conflitti economici e geopolitici che nulla hanno a che vedere con il costo del lavoro ed il livello dei salari.

I salari sono rimasti al palo ed anche l’azione contrattuale, i rinnovi dei CCNL, non sono riusciti a difendere il potere d’acquisto. L’accettazione da parte di Cisl e Uil, con il dissenso della Cgil, in un primo tempo, di un parametro di riferimento per l’adeguamento dei salari, nell’indice IPCA, che prendeva a base il tasso d’inflazione al netto di quella derivante da importazione di materie prime e forniture energetiche – poi successivamente accettato dalla Cgil per evitare contratti separati – è stato un altro errore storico, che ha determinato il progressivo logoramento del potere d’acquisto dei salari italiani ed ha inchiodato il sindacato per anni al paradigma del costo del lavoro.

Nel frattempo, la composizione dei costi di un prodotto finito è infatti profondamente mutata. Il costo di produzione è esponenzialmente più basso del costo di direzione, promozione e commercializzazione (su un’auto il costo del lavoro si attesta intorno al 15/17%, praticamente niente, rispetto al resto).

Il compito del sindacato è porre nelle giuste dimensioni la questione salariale ed il compito della politica riprendersi il controllo sugli altri costi, quindi sull’economia di mercato e la finanza.

Questa analisi è necessaria per capire la situazione attuale e rendersi conto che le misure prese dal governo sul fronte del sostegno ai salari ed alle pensioni più bassi, sono ridicole nelle quantità e sbagliate nel merito: mi riferisco al taglietto del cuneo fiscale o, peggio ancora, alla decontribuzione del salario, che in un regime pensionistico “contributivo” significa alzare un po’ il salario netto con i soldi delle nostre pensioni future. Da qui, rendersi anche conto della inadeguatezza della reazione sindacale.

Ricostruire il contesto e la catena di eventi, scelte e responsabilità, serve a ritrovare le nostre radici, per indicare finalmente una strada diversa.

Pietro Soldini

Pubblicato il 20 Settembre 2022