Il lavoro è tornato centrale. Abbiamo perso, ma ora alla lotta!

Eliana Como: “La prossima settimana ci riuniremo per l’Assemblea nazionale Cgil e un bilancio andrà fatto. Auspico che tutti saremo in grado di farlo, con rigore e con onestà”

“Dopo tanti anni si è tornato a parlare di precarietà e finalmente abbiamo portato il tema della cittadinanza nei posti di lavoro: avevamo iniziato dicendo che le elettrici e gli elettori avrebbero votato su quattro referendum sul lavoro e uno sulla cittadinanza, ma alla fine, nelle ultime settimane, abbiamo iniziato a spiegarli diversamente… perché si è trattato di cinque referendum sul lavoro. Perché il tema della cittadinanza riguarda noi, la condizione di ricatto dentro i posti di lavoro, il fatto che chi lavora accanto a me e fa il mio stesso lavoro non ha i miei stessi diritti, non può votare ed è spesso costretto ad accettare condizioni di lavoro e di salario peggiori… E’ andata come è andata, abbiamo perso, meglio dirselo, ma in ogni caso abbiamo provato a portare la primavera in questo paese”.

Eliana Como, Portavoce dell’Area “Le Radici del Sindacato”, apre la conversazione con ‘Progetto Lavoro’ riconnettendo l’esito del voto referendario (quorum non raggiunto, 15 milioni di cittadine e cittadini al voto) alle questioni cruciali della partecipazione, della consapevolezza, del nesso tra lavoro e cittadinanza e, se vogliamo, di un futuro da costruire ad iniziare da oggi.

Il quorum non è stato raggiunto e le polemiche si sprecano. Qual è la tua valutazione?

Purtroppo raggiungere il quorum era inverosimile, lo sapevamo dall’inizio. Va anche detto che, nelle ultime settimane, l’attenzione nel paese sui referendum è cresciuta tanto, nonostante il ‘silenzio elettorale’ imposto dalla RAI. Questo ci ha fatto pensare che sarebbe andata meglio di così. Però bisogna ammettere che c’è un problema ormai quasi strutturale nel paese ed è l’astensionismo. Detto questo, penso anche che prendersela con chi non ha votato sia sbagliato. Non per giustificarli, non ci penso proprio. Ma ho letto molti post sui social che si accaniscono sugli astensionisti, persino sindacalisti che augurano il licenziamento a chi non è andato a votare. Questo lo trovo francamente intollerabile. Quando si perde, si fa il bilancio e l’autocritica: non ce la si può cavare accusando chi non ti ha seguito. Più che altro, invece, vanno ringraziati tutti e tutte quello che lo hanno fatto. È a loro che dobbiamo assicurare che noi comunque andremo avanti, per cambiare la condizione di ricatto e di precarietà che ha portato loro a votare in una calda domenica di giugno.

Gira in rete un meme del PD, che cita il numero di “sì” al referendum (13 milioni) raffrontandoli con il numero di voti presi da tutto il centrodestra nel 2022 (12 milioni), per arrivare ad affermare che il “nostro voto conta”, in prospettiva elettorale futura. Che cosa pensi di questa chiave di lettura?

Penso che anche questa narrazione sia surreale. I referendum non erano una prova generale del campo largo, ma un tentativo di riscatto di chi è stanco della precarietà e del ricatto, anche a causa di leggi che lo stesso PD ha sostenuto fino all’altro ieri. Abbiamo vinto? No. Chi era convinto che si raggiungesse il quorum, evidentemente ha sbagliato. Ma se c’era chi pensava che ‘bastassero 13 milioni di voti’ è anche peggio, perché ci ha preso in giro. Io credo che dobbiamo affrontare la sconfitta e ripartire dalle cose buone: dalla militanza di questi mesi, dalla partecipazione che comunque abbiamo attivato, dalla necessità di ricostruire una mobilitazione ampia sui temi del lavoro, senza compromessi. Per ripartire bisogna continuare a ‘sporcarsi le mani’, le scorciatoie della retorica politica non sono utili ma proprio dannose. Perché aldilà del risultato deve essere chiaro che dobbiamo ancora dare risposta alle tante donne e uomini che rimangono senza diritti e in condizioni di lavoro precarie e ricattabili, ai quali non interessa la strumentalizzazione politica della loro condizione. Chi millanta vittorie o sorpassi che non ci sono stati dimostra soltanto la sua insopportabile capacità di arrampicarsi sugli specchi della politica e perde, invece, l’ennesima occasione per tornare finalmente ad essere credibile.

Il tentativo di coniugare al meglio sogni e realtà è stato costruito passo dopo passo, anche per questo motivo la delusione è palpabile…

Quel tentativo lo abbiamo esplorato a fondo soprattutto a proposito del quesito sulla cittadinanza: non è stato facile parlarne nelle assemblee, con i lavoratori e le lavoratrici, perché in questi decenni la narrazione tossica per cui ‘è tutta colpa dei migranti’ è passata eccome, ha preso piede passo dopo passo. L’ho verificato personalmente nelle settimane di campagna referendaria, al nord ma anche al sud: dovunque le persone si fanno convincere che se vengono sfruttate, se la sanità non funziona, se i salari sono bassi, non è colpa di chi ci governa e di chi ci sfrutta, o di chi in campagna elettorale promette cose che non manterrà mai. No, è più facile pensare che la colpa sia di chi è più sfruttato e più disperato di me, e questo meccanismo si autoalimenta persino in terre che ancora sono di emigrazione.

Un problema ormai annoso, che stiamo rincorrendo con meno strumenti rispetto a quelli che possono mettere in campo coloro che la lotta di classe, “dall’alto”, la continuano a fare eccome…

Dovevamo andarci prima nei posti di lavoro a mettere in discussione questo assunto. Dovevamo avere il coraggio di affrontare una questione così enorme. Finalmente lo abbiamo fatto, ma siamo soltanto all’inizio di una battaglia di lunghissima lena. Certo, è capitato anche a me che qualcuno si alzasse in assemblea e se ne andasse: ma il nostro compito è affrontare temi di portata così straordinaria, facendo da argine, fornendo alle lavoratrici e ai lavoratori argomenti e informazioni per condividere con loro che il razzismo è una scorciatoia e fa comodo soltanto ai padroni. Perché divisi siamo più deboli e loro più forti.

Che risposte hai percepito dalle platee assembleari?

Sul tema della cittadinanza ho riscontrato poca consapevolezza, in primo luogo. Ma dopo essermi confrontata con i lavoratori, spiegando quegli aspetti che sfuggono o sui quali i media non ti inducono a riflettere, ho spesso e volentieri condiviso il fatto che, oggi, la cittadinanza non è un diritto ma una concessione, che non sono quasi mai nemmeno dieci anni quelli necessari ad ottenerla, bensì molti di più. Perché il richiedente resta incastrato nella burocrazia, considerando che le istituzioni impiegano tre anni soltanto per esaminare la domanda; inoltre, occorre dimostrare di avere un certo livello di reddito, di non avere mai commesso reati, di conoscere l’italiano, di aver pagato sempre le tasse. Tutti aspetti che non pretendiamo certo dagli italiani. Si dice: “I migranti devono meritarsela la cittadinanza”. E gli evasori fiscali invece no? Si dice: “Devono sudarsela!” In fabbrica, nei cantieri, nei campi di pomodori se ne sono sudate a decine di cittadinanze!

Combattere quell’ostilità preconcetta è una battaglia di civiltà.

Di più, per il sindacato è un dovere morale. E fortunatamente attecchisce molto ma molto meno tra i ragazzi e le ragazze: loro sono cresciuti insieme, hanno studiato insieme, hanno giocato insieme e non danno più importanza al colore della pelle. I più anziani, quelli che magari lavorano nelle fabbriche del profondo nord e sai benissimo che votano Lega o FdI, vanno presi di petto, dicendo loro che devono decidere da che parte stare. Il mondo va comunque avanti, evolve, cambia: ‘Voi volete restare indietro o andare avanti? Volete stare dalla parte di chi sfrutta o di chi è sfruttato? Ve la sentite davvero di rendere più difficile la richiesta di cittadinanza di chi vi lavora accanto o dei figli e delle figlie di chi vi abita vicino?’.

Insomma, c’è una narrazione fondata sull’odio che va smontata…

Grazie alla campagna referendaria abbiamo potuto iniziare a farlo davvero, ma dobbiamo andare avanti. Questo non è che l’inizio, va picconato mattone dopo mattone quel muro che altri hanno tirato su in questi anni. La classe operaia è stata più forte in questo paese quando, negli anni 70, gli operai del nord si sono alleati con gli operai del sud; quando hanno capito che anche se non avevano lo stesso dialetto, alla catena di montaggio parlavano tutti la stessa lingua, quella della fatica e dello sfruttamento. Se, in questi decenni, il razzismo è entrato nelle fabbriche e nei posti di lavoro è perché quella classe si è sentita abbandonata. Se torniamo a fare bene il nostro mestiere, siamo in grado di essere un antidoto a questa narrazione di odio. Continuiamo a farlo a maggior ragione adesso, dopo il referendum.

Gli altri quattro quesiti, al di là del mancato raggiungimento del quorum, ci hanno permesso, come si diceva, di riportare il lavoro al centro del dibattito pubblico.

Abbiamo potuto riproporre il tema dei diritti, che sono per tutti o sono privilegi. Se ho iniziato a lavorare a marzo del 2015 con il ‘Jobs act’ ho meno diritti di chi ha iniziato un mese prima. Se lavoro in una ditta con meno di 15 dipendenti ne ho meno di chi lavora in una di 16. Se lavoro in una ditta in appalto, ne ho meno di chi lavora in quella committente. Anche se facciamo lo stesso lavoro, uno accanto all’altro. Se opero in appalto ho meno diritti, meno salario, meno sicurezza.  Personalmente, ho iniziato la mia storia nel sindacato all’inizio degli anni 2000. Nel 2003, quando ci fu la mobilitazione per l’articolo 18, ero precarissima. Sapevo che cosa fosse l’articolo 18 perché l’avevo studiato, ma non riguardava la mia condizione. E c’era chi provava a spiegarmi che se io non avevo diritti era perché qualcun altro ne aveva troppi. L’idea che per avere un diritto in più dovevo toglierlo a qualcun altro, non mi ha mai convinta. E oggi siamo al punto che i precari sono più precari e anche chi era a tempo indeterminato è più debole. Chi ci ha guadagnato? I padroni e la Confindustria, quelli che infatti hanno dato indicazione di non andare a votare.

La battaglia per i diritti fondamentali va ben oltre il voto dell’8 e 9 giugno. Che cosa ci attende ora?

Aldilà di come è andata, questi mesi sono la prova che la Cgil può mobilitarsi molto di più di quanto non faccia di solito: valga come proposito per il futuro, dobbiamo crederci innanzitutto noi. Troppe volte la Cgil, in questi decenni, si è tirata indietro spiegando che ‘non c’erano le condizioni’. Le condizioni dipendono dai rapporti di forza, certo. Ma siamo noi che le determiniamo; se non ci crediamo noi, come possono crederci altri? Nelle ultime settimane, durante la campagna referendaria, ha iniziato a circolare la foto della manifestazione del 25 ottobre 2014, in una piazza San Giovanni strapiena contro il ‘Jobs act’. Me la ricordo quella piazza, che a gran voce chiedeva lo sciopero generale. È circolata in questi giorni, quell’immagine, per rispondere a chi ci accusava dicendo ‘dove eravate voi quando veniva approvato il Jobs act?’. Ma dobbiamo chiederci perché, dopo quella straordinaria piazza, non abbiamo avuto il coraggio di andare fino in fondo. Alla fine, abbiamo fatto un referendum dieci anni dopo quella manifestazione. Forse è su questo che dobbiamo interrogarci. Ci sono stati tanti volantinaggi, potevano esserci più assemblee, ma, soprattutto, in questi mesi sono mancate le lotte. Ora si tratta di non ripetere gli stessi errori. Per esempio, bisogna imparare, anche grazie a questi mesi di campagna referendaria, a riconoscere gli alleati dagli avversari e a fare tesoro di queste alleanze. Allo stesso modo, dobbiamo ricordarci di chi invece, anche nelle assemblee, ha volantinato contro il referendum: la Cisl ha deciso di schierarsi con Confindustria e con il governo. Che nessuno, il prossimo settembre, provi a spiegarmi che dobbiamo aspettare loro per fare qualsiasi iniziativa sarà necessaria per la legge di bilancio!

Come Portavoce dell’Area ‘Le Radici del Sindacato’ che bilancio fai di questa campagna referendaria?

Noi quello che abbiamo detto, abbiamo fatto. Come sempre. Quando un anno fa discutemmo in Direttivo nazionale se fare il referendum, spiegammo che non eravamo d’accordo (a questo link è disponibile l’intervista di Eliana Como pubblicata il 7 maggio 2024 su ‘Progetto Lavoro’ con la posizione de ‘Le Radici del Sindacato’ sui referendum). Ma nella stessa dichiarazione di voto dissi che, se avessimo deciso comunque di proseguire sulla strada dei referendum, noi ci saremmo stati e avremmo fatto la nostra parte, come e, se possibile, più degli altri. Perché, appunto, il referendum ti costringe a schierarti. La prossima settimana ci riuniremo nuovamente e un bilancio andrà fatto, spero che lo faremo con rigore e onestà. Anche sulla scelta del referendum in sé, perché non si poteva ignorare che il rischio fosse quello di consegnare l’ennesima sconfitta al mondo del lavoro. Dopodiché, come ho detto, per me, arrendersi o demoralizzarsi non è un’opzione. Abbiamo provato a portare la primavera; se, con la stessa convinzione, provassimo a farlo sempre, sboccerebbero più fiori. Smettere di credere ai nostri sogni è la cosa peggiore che potremmo fare. Per questo, ci vediamo in piazza il 20 giugno per lo sciopero generale e dei metalmeccanici e le metalmeccaniche e il giorno dopo, a Porta San Paolo a Roma, per dire ‘no’ alla guerra, al riarmo, al genocidio in Palestina e all’autoritarismo.

Pubblicato il 13 Giugno 2025