Da Firenze a Prato: storia di una strage annunciata

Solo un paio di giorni or sono, alla data di stesura di questo articolo, è stato estratto il corpo dell’ultimo martire del lavoro dal groviglio di calcinacci, cavi e travi, ancora senza nome, che si aggiunge ai suoi compagni di lavoro Luigi Coclite, Mohamed Toukabri, Mohamed El Fahrane, e Taoufik Haidar. Nomi e non numeri. Dopo le ennesime due sole ore di sciopero nazionale, dopo i comunicati di rito sindacali che chiedono più controlli, c’è veramente qualcosa di più che possiamo provare a fare, prima che ancora una volta si spengano i riflettori su quella tragedia?

Dal popoloso quartiere di Rifredi, povero di spazi verdi e di luoghi per la socialità, il nostro – il loro – modello di sviluppo ha individuato l’ennesimo centro commerciale come la destinazione d’uso di un enorme panificio militare abbandonato da vent’anni. Forse il nuovo scintillante cubo di cemento, progettato male, tagliando i costi, avrebbe potuto tra qualche mese, ad inaugurazione avvenuta, essere teatro di una strage paragonabile a quella della stazione di Bologna. Il che qualche riflessione dovrebbe pur stimolarla, a chi pensa che subappalti e massimo ribasso siano un affare.

Ma continuando il nostro viaggio verso nord ovest, dopo nemmeno cinque chilometri di strada fiancheggiata da casermoni ed opifici troviamo l’operaia e operosa Prato. La sorella minore di Firenze, che non manca anch’essa di nascosti e dimenticati tesori d’arte, fu nel 2013 luogo del più grave infortunio sul lavoro della storia della Repubblica assieme alla Thyssenkrupp. Sette operai di nazionalità cinese arsi vivi nell’incendio della loro fabbrica. Come alla Thyssenkrupp. Personalmente non ricordo il clamore mediatico e la partecipazione emotiva che ebbe quest’ultima, né nel Paese , né nel mondo sindacale. Forse perché in fondo era considerata una cosa da cinesi, un angolo di sottosviluppo da estremo oriente nascosto ai piedi di colline e ulivi. Se così avvenne, fu un errore.

Perché Prato, che allora era veramente un far west senza regole e senza controlli, ne uscì sconvolta. Non ci si limitò ad arrestare i responsabili, a proclamare il lutto cittadino, a stracciarsi le vesti mediaticamente per poi ritornare a quella normalità. Un’intera comunità si fermò a riflettere, italiana e cinese, e si chiese veramente che razza di qualità della vita, di valori morali e di futuro stesse preparando per i propri figli. E così, fu istituito un tavolo di costruttori di sicurezza, in cui ognuno fu chiamato a fare la propria parte, anche dopo il richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dell’ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese Ding Wei, ciascuno rivolto ai propri cittadini.

Sotto il coordinamento della Prefettura, le associazioni imprenditoriali si impegnarono ad un’opera di sensibilizzazione nei confronti dei propri associati, presentando la sicurezza come un investimento, e non un costo. Le organizzazioni sindacali ingaggiarono sei nuovi Rappresentanti Lavoratori Sicurezza Territoriali, quattro dei quali di etnia cinese. La Regione Toscana potenziò il dipartimento di Medicina del Lavoro e l’apparato ispettivo della locale Usl. La Procura si impegnò a dare priorità ai fascicoli riguardanti infortuni sul lavoro con conseguenze invalidanti. Fatto importante, e per nulla scontato ovunque nel paese, visto che per carenza di organico molti infortuni finiscono per non essere perseguiti di ufficio, ma solo su querela di parte.

Questo mix di informazione, prevenzione, controllo e repressione è ciò che si chiama cultura della sicurezza. Non si può pensare che gli ispettori del lavoro riescano a controllare ogni cantiere. Serve la collaborazione di tutti gli attori per espellere dal sistema produttivo i soggetti che utilizzano la sicurezza del lavoro come leva per ridurre i costi.

I risultati furono da subito incoraggianti, tanto che si parlò di un modello Prato, successivamente assunto e fatto proprio dalla Regione Toscana. Avrebbe potuto essere un bellissimo lieto fine. Invece nel 2017 si fece marcia indietro, perché l’autonomo settore sulla prevenzione e sicurezza ambienti di lavoro fu eliminato, facendone confluire le competenze sotto il settore della veterinaria, dell’igiene pubblica e dei vaccini, chiamato con il generico nome di “prevenzione collettiva”.
Nel concreto, secondo Tommaso Fattori, ex consigliere regionale che al tempo si oppose, “questa ‘riorganizzazione’, questo ‘accorpamento’ sotto un unico settore, significa nel tempo, in concreto, tagli di risorse e personale; ha significato declassamento e depotenziamento, ai danni di un efficace contrasto degli infortuni e delle morti sul lavoro”.

E, bisogna ammetterlo, nemmeno la Cgil in Toscana ha fatto fino in fondo la propria parte per onorare quel patto. Come del resto avviene in altre parti del paese, sappiamo che vi sono territori in cui non sono stati designati gli R. L. S. T., principalmente nell’edilizia, il settore più a rischio, o se ci sono fanno in realtà altro. Eppure si fa fatica ad invocare giustamente maggiori controlli da parte degli enti preposti, se poi si rinuncia ad esercitare il proprio. Il principale, quello interno, che lo stesso decreto 81/2008 assegna proprio ai lavoratori e ai loro rappresentanti, con una serie di compiti e responsabilità elencate all’art. 51, che bisognerebbe rileggere ogni mattina.

E allora a quel patto bisogna tornare, come costruttori di sicurezza. Non solo a Prato, non solo a Firenze, ma in ogni città. Perché si possono cambiare leggi, che sulla sicurezza già ci sono, si possono cambiare le sanzioni o il sistema dei controlli. Tutto serve. Ma ciò che fa la differenza è cambiare la mentalità e la coscienza di tutti. E’ un processo storico irreversibile, che è già iniziato, partendo dai tempi in cui un infortunio mortale veniva definito sul giornale “una tragica fatalità”, e in cui il rischio veniva non ridotto, ma monetizzato in accordi sindacali. E’ un processo che è partito da anni, ma che avanza troppo lentamente.

Davide Vasconi

Pubblicato il 27 Febbraio 2024