Scuola, una contrattazione da riconquistare

Nel corso del 2022 sono stati rinnovati quasi tutti i contratti pubblici, relativi al triennio 2019/2021. Quasi. In realtà, il rinnovo dell’istruzione e ricerca non è ancora stato chiuso. Si è solo firmato un anticipo.
Nel 2022, erano circa 1.380.0000 gli aventi diritto al voto per le RSU dell’istruzione e ricerca. Certo, oltre un quarto erano precari, in particolare nella scuola, anche per l’eccezionale organico covid. Si tratta in ogni caso di oltre un terzo dei dipendenti della Pubblica amministrazione.
Nel dibattito pubblico, e forse anche nella percezione della stessa categoria, il problema del rinnovo non è particolarmente percepito. Anche per responsabilità delle stesse organizzazioni sindacali, compresa la FLC. Anzi, per certi versi con una maggior responsabilità della FLC, per il suo ruolo e la sua vocazione. Lo scorso dicembre, infatti, mentre la trattativa era incagliata, il nuovo ministro dell’Istruzione e del merito ha voluto un’accelerazione: ha portato le organizzazioni rappresentative (FLC, CISL scuola/università, UIL RUA, SNALS, FGU, ANIEF) a sottoscrivere prima un accordo politico e poi un anticipo della parte economica, pari al 95% degli aumenti relativi all’inflazione (nel complesso, il 3,78% dal 1.1.2021, a cui però si aggiungeva lo 0,85% dal 1.1.2019 e l’1,57% dal 1.1.2020). Come Radici del Sindacato abbiamo subito definito quell’accordo una trappola, chiedendo di non firmarlo e di riprendere gli scioperi per arrivare ad un vero rinnovo. Certo, con il Natale è arrivata in busta paga quasi una mensilità di arretrati, rendendole più pesanti nel periodo di maggior incidenza dell’inflazione (allora al 12/13%). Questo era proprio l’obbiettivo politico del nuovo esecutivo, per consolidare il suo consenso con i suoi primi atti di governo. I conti in tasca a lavoratori e lavoratrici, però, sono in realtà magri. Gli aumenti reali sono contenuti.
La FLC CGIL, infatti, nelle rivendicazioni si era posta obbiettivi ambiziosi. Dopo quello che aveva valutato un semplice contratto ponte (2016/2018, che non aveva nemmeno recuperato l’inflazione del lungo periodo di congelamento dei salari pubblici), voleva recuperare il divario che nel comparto si era creato non solo verso gli altri paesi europei, ma anche verso gli altri settori della pubblica amministrazione (350 euro mensili, nelle parole del segretario generale della categoria, da recuperare in due tornate contrattuale). L’accordo di dicembre, invece, si fermava molto al di sotto di questo obbiettivo, intorno ai 125 euro mensili, considerando le risorse complessive che venivano delineate. In pratica, rispetto si ottenevano solo 300 mln di euro in più per la scuola, da destinare al trattamento fondamentale (RPD per docenti e CIA per ATA), in realtà uno storno di risorse comunque destinate al settore, originariamente dedicate al salario accessorio docente (fondi di istituto). In pratica, si era ottenuto di spostare una quota di accessorio al tabellare: un risultato positivo, che distribuisce a tutti le risorse, ma che non ha comunque modificato gli aumenti globali del salario.
A dicembre avevamo sottolineato il rischio che firmando quell’accordo, la trattativa avrebbe perso forza. La percezione di massa sarebbe stata quella della chiusura del rinnovo. L’assenza di una vertenza sui saldi complessivi avrebbe reso più debole la parte sindacale nella negoziazione. Così è stato. Nonostante si fosse preventivato una chiusura in poche settimane, i pessimisti prevedevano entro febbraio, sono passati sei mesi. Senza molti avvenimenti. E la fine fatica ancora a vedersi.
Nella parte della scuola, si delinea la possibile conquista di una prima parificazione di diritti per i precari (i giorni di permesso retribuiti), ma in carico comunque ai saldi complessivi previsti. Mentre tutta da verificare è la stesura finale della parte normativa, con partite importanti (didattica digitale, formazione e carichi di lavoro nell’orario docente, provvedimenti disciplinari, inquadramento ATA, ecc).
La parte università e ricerca è ancora più incagliata (almeno, ad ora): per il personale contrattualizzato ci sono 50 milioni di euro di risorse aggiuntive (intorno ai 1.000 euro annui a persona), ma l’ARAN li vorrebbe in indennità di posizione e salario premiale (nonostante siano risorse fisse, un ulteriore sostegno al potere delle dirigenze, un unicum in tutta la PA, una violazione delle norme attuali). Mentre rimane ancora in alto mare la soluzione di partite annose, come i CEL e i cosiddetti policlinici. A questo, infine, si aggiunge l’indefinitezza della reale inclusione nel CCNL del tecnologo e del contratto di ricerca, primo passaggio con cui le mobilitazioni di questi anni contro il precariato avevano ottenuto (nella legge sul preruolo) il superamento di figure atipiche come gli assegni (di fatto dei co.co.co) e un riconoscimento delle reali professionalità operanti nella ricerca. Negli Enti di Ricerca Pubblici le risorse aggiuntive sono rilevanti, ma destinate solo agli enti vigilati MUR, con migliaia di lavoratori e lavoratrici che non si vedrebbero aggiudicare gli aumenti (come quelli di ISS, ISTAT, ISPRA, ecc), creando due velocità all’interno di uno stesso CCNL.
Un contratto nato storto. Tutto l’impianto di questo rinnovo presenta in realtà squilibri evidenti. Le organizzazioni sindacali hanno infatti conquistato risorse diverse a seconda dei comparti, dei ministeri, degli ambiti, erogate per legge. Nell’istruzione e nella ricerca, si arriva al parossismo di un unico CCNL che prevede risorse molto diverse nei settori: aumenti complessivi intorno al 5% nella scuola (media 118 euro mensili lordi, 124 per i docenti); al 7% nell’università (media 168 euro), al 10% nella ricerca (media 264 euro). Il punto è che già oggi le diversità salariali premiano la ricerca: questo contratto polarizza le differenze che ci sono. In un comparto che vede alcuni lavoratori e lavoratrici (i CEL nelle università, gli ATA nelle scuole) pericolosamente vicini alla soglia di povertà. Un rinnovo storto in una stagione storta: la ripresa della contrattazione pubblica è avvenuta infatti all’insegna della triennalità (con la ripresa dell’inflazione questo è un disastro) e a posteriori, con rinnovi che si chiudono al termine della vigenza (è stato così nel 2018 e nel 2021, sarà così nel 2024). Una contrattazione segnata, nella parte normativa, dai vincoli di Brunetta e Madia, a partire dall’impossibilità di contrattare l’organizzazione del lavoro.
Nell’istruzione e nella ricerca è in realtà in crisi tutto il sistema contrattuale. Nella scuola la contrattazione di istituto è schiacciata dall’assenza di risorse e dal potere dei Dirigenti scolastici. Mentre la contrattazione nazionale integrativa è di fatto annullata da un Ministero arrogante e solipsistico (è il terzo anno che sulla mobilità si impone con atti unilaterali). Nell’università e nella ricerca la contrattazione di secondo livello è sempre più ingabbiata dai vincoli di spesa e dal ruolo delle dirigenze, con differenze sempre più rilevanti tra i diversi enti/atenei (nei politecnici del nord, ad esempio, tra salario accessorio, welfare e redistribuzione delle attività conto terzi si arriva mediamente ad un aumento del 50% dello stipendio, mentre in molte realtà non si supera una mensilità). Con divergenze sempre più marcate anche dentro gli atenei (queste quote medie si distribuiscono in modo sempre più sperequato, concentrate in alcune posizioni, dipartimenti, professionalità).
Infine, il congelamento della trattativa in questi mesi ha avuto conseguenze importanti. Ha di fatto impedito di porre con forza, sui tavoli e nelle piazze, il problema del rinnovo 2022/2024. Questi anni di inflazione anche a due cifre, necessitano di risorse imponenti solo per il recupero dell’IPCA (senza quindi porsi neanche stavolta l’obbiettivo di accorciare le distanze con le retribuzioni degli altri comparti). Si tratta, per tutto il pubblico, di oltre 11 miliardi di euro (e forse più, contando che le amministrazioni con proprio bilancio avranno bisogno di trasferimenti centrali, in grado di coprire questi aumenti senza fare default). Per ottenere queste risorse, non si può mobilitarsi in autunno. Non si può cioè pensare di intervenire semplicemente nell’elaborazione della Legge bilancio, m abisogna incidere sui saldi stessi della manovra, che per le regole europee sono definiti tra DEF e NADEF. Cioè tra aprile e settembre. Il momento della mobilitazione era ora. Era, perché oramai è uno spazio di fatto chiuso.
La FLC deve allora assumere con consapevolezza questa situazione. Non occultarla a lavoratori e lavoratrici, creando narrazioni che servono solo ad aumentare la distanza con la realtà, ad evidenziare lo iato tra le parole e i fatti, a moltiplicare delusioni e passività. Bisogna riconoscere le impasse, i problemi e gli errori. Bisogna porsi con chiarezza, determinazione e coraggio dei nuovi obbiettivi. Bisogna cioè chiudere in fretta questo rinnovo, senza perder di vista il merito dell’inclusione e soprattutto della difesa dei salari (a partire da quelli più bassi), per aprire subito una vertenza complessiva: sulla durata dei contratti, il recupero automatico delle masse salariali rispetto all’inflazione, il superamento della Madia e la contrattazione dell’organizzazione del lavoro. Una nuova stagione che riparte, inevitabilmente, dal conflitto.
Luca Scacchi

Pubblicato il 30 Maggio 2023