Network Contacts: è ora di indignarsi
Il 4 dicembre scorso l’azienda pugliese ha aderito al contratto collettivo stipulato tra l’associazione datoriale Assocontact ed i sindacati poco rappresentativi Cisal e Confedir, uscendo di fatto dal contratto collettivo nazionale
Network Contacts è un’importante azienda pugliese operante nel settore delle telecomunicazioni, specializzata nella fornitura di soluzioni per contact center e servizi di customer care, tra cui la gestione di chiamate inbound ed outbound, delle campagne di marketing e di altre soluzioni di outsourcing per la relazione con i clienti. Nella sola Puglia l’azienda può contare circa cinquemila dipendenti, che attualmente vivono un momento di particolare agitazione. Infatti, il 4 dicembre scorso Network Contacts ha aderito al contratto collettivo stipulato tra l’associazione datoriale Assocontact ed i sindacati poco rappresentativi Cisal e Confedir, uscendo di fatto dal contratto collettivo nazionale sottoscritto da Asstel ed i sindacati confederali, scaduto da qualche anno.
Questo nuovo contratto è stato sottoscritto, oltre che da Network Contacts, da altre sei aziende delle telecomunicazioni e per questo interessa un numero considerevole di lavoratrici e lavoratori. Di fatto, rispetto alla piattaforma contrattuale proposta dai sindacati confederali di categoria per il rinnovo contrattuale, sancisce un arretramento delle condizioni salariali e dei diritti, in un contesto nel quale peraltro sembrava impossibile peggiorare le condizioni di lavoro, se consideriamo che i salari italiani del settore telecomunicazioni sono più bassi della media OCSE.
Il contratto Assocontact-Cisal prevede, tra le altre cose, aumenti miserrimi che paiono non essere indicizzati alla dinamica inflattiva che ha divorato i salari in questi ultimi anni, un dimezzamento dei permessi orari, una cospicua riduzione dell’indennità di maternità e sembrerebbe avere anche un profilo di illegittimità giuridica in quanto i lavoratori con contratto a progetto percepirebbero una paga oraria inferiore a quella dei diretti dipendenti, a parità di mansione. Si tratterebbe sostanzialmente di un esempio di dumping contrattuale.
Nell’agosto 2023 Network Contacts aveva aperto una procedura di licenziamento per 280 persone nella sede di Molfetta in provincia di Bari salvo poi ritirarla a seguito della sottoscrizione di un contratto di programma con la Regione Puglia che ha permesso all’azienda “di investire in un ambizioso progetto di ricerca e sviluppo in ambito dell’Intelligenza Artificiale e blockchain”, come affermava il vicepresidente dell’azienda stessa.
Nel dicembre 2024 la Network Contacts decise di abbandonare il contratto Asstel, fino ad arrivare a marzo 2025, a poco più di un solo anno dalla sottoscrizione del contratto di programma con Regione Puglia, quando ha aperto una procedura di licenziamento per 96 addetti nella sede di Molfetta. Benché, come ha scritto la ‘Gazzetta del Mezzogiorno’ in un articolo sulla vicenda, “(…) il 18 marzo si organizza un recruiting day a Porta Futuro Bari per assumere personale in quella stessa sede di Molfetta dove si licenzia”; aggiungendo in chiusura, “(…) una coincidenza troppo macroscopica da non risultare strana”.
Questa vicenda evidenzia delle tendenze in atto che determinano caratteristiche precise del tessuto produttivo nazionale. Le imprese in Italia ricercano modelli di competitività quasi interamente basati sulla riduzione dei costi, soprattutto di quello del lavoro e, nel caso specifico del settore dei contact center, pesa l’introduzione della AI, come confermano i dati ISTAT. Pur essendo, quei costi, i più bassi della media europea sono pur sempre in crescita (8%), tenendo conto anche del fatto che oggi, rispetto al passato, questa tecnologia consente la sostituzione di mansioni anche molto complesse.
A differenza dei processi di automazione che hanno interessato lavoratori con mansioni tipicamente ripetitive, l’AI espone al rischio occupazionale soprattutto il settore dei servizi e in generale tutti i lavoratori e le lavoratrici di quei settori che sono sempre stati considerati appannaggio delle competenze umane.
In un Focus Censis, Confcooperative sostiene che da qui al 2035 l’Intelligenza Artificiale potrebbe portare un aumento di PIL del +1,8% pari a 38 miliardi e si stima che entro il 2030 il 27% delle ore lavorate sarà automatizzato. I settori maggiormente colpiti da questo processo sono la produzione industriale (36,6%), il supporto d’ufficio (36%) e la ristorazione (37%).
Questi dati sembrano confermare l’accelerazione del processo di trasformazione del lavoro che, soprattutto in Italia, si sta traducendo in licenziamenti, determinando un peggioramento delle condizioni contrattuali in termini di diritti, salari, qualità del lavoro e sicurezza.
In gioco, quindi, c’è la tenuta sociale del Paese, alla luce della considerevole sfasatura tra spregiudicatezza delle imprese – anche grazie ad un contesto politico in cui si denota l’assenza di regole sulla rappresentanza e governi poco favorevoli alla working class – e, dall’altra parte, l’inerzia pachidermica delle organizzazioni sindacali.
Prendendo atto del fatto che le ore lavorate dall’essere umano diminuiranno in maniera incontrovertibile, sarebbe necessario riprendere con più determinazione una discussione sulla lotta per “il tempo liberato”, che è sempre stato uno dei cardini del sindacato.
In molti casi, paradigmatica in questo senso è la vicenda dell’automotive: la liberazione del tempo è ottenuta attraverso l’utilizzo strutturale degli ammortizzatori sociali. Assistiamo cioè alla liberazione del tempo realizzata a spese della fiscalità generale e dello spostamento del valore dal salario delle lavoratrici e dei lavoratori quasi direttamente alle imprese in un contesto di inflazione galoppante come testimoniano tutti gli indicatori.
La flessibilità delle produzioni e del mercato, la mancanza totale di visione industriale – soprattutto in ottica socialmente ed ecologicamente sostenibile – la gestione unilaterale delle tecnologie e della formazione a nuove competenze, nonché della transizione ecologica, stanno di fatto creando disoccupazione, fermando i salari, cancellando i diritti e, contemporaneamente, stanno consentendo alle imprese di massimizzare i propri profitti a fronte di pochissimi investimenti sul territorio.
Si sta normalizzando, cioè, una tendenza che, secondo chi scrive, vuole un mondo del lavoro in cui venga sancito il primato della politica discrezionale aziendale.
Questo gap sindacale deve essere assolutamente colmato, recuperando la capacità di generalizzare l’indignazione contro l’ingiustizia sociale, creando una reale convergenza delle vertenze sociali dentro un contesto di solidarismo conflittuale, che elimini l’attuale e nociva frammentazione della working class. E’ necessario costruire azioni collettive per riprendere la partecipazione e ricostruire veri rapporti di forza contro i licenziamenti, il working poor, l’ansia della precarietà, per migliorare la qualità del lavoro, vivere e lavorare in maniera più sicura. Bisogna pretendere produzioni integrate ai territori, socialmente ed ecologicamente sostenibili.
E’ doveroso riprendere il conflitto sociale riutilizzando gli antichi, ma sempre efficacissimi, strumenti del mutualismo conflittuale, che hanno contrassegnato la storia del sindacato europeo (casse di mutuo sostegno, casse di resistenza e fondi di sciopero); ed è altrettanto doveroso sostenere la campagna referendaria per il lavoro e la cittadinanza che si terrà a giugno, che deve segnare un punto di svolta e di ripresa dei rapporti di forza.
La vicenda Network Contacts conferma che una vera “rivolta sociale” servirebbe a fermare definitivamente questa dissennata visione unilaterale del lavoro che le imprese stanno consolidando, la quale è vorace di profitto e disumana per le lavoratrici, i lavoratori, le loro famiglie e i territori in cui si trovano.
Felisiano Bruni
Fiom-CGIL, Bari
Pubblicato il 15 Aprile 2025