Le piazze del cambiamento

“La scuola deve fare la sua parte, recuperando la capacità di insegnare a ragazze e ragazzi a porsi domande, invece che indirizzarli in percorsi precostituiti e omologanti”

Centinaia di migliaia di donne e uomini hanno riempito le piazze italiane rispondendo all’invito di Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, l’ennesima donna uccisa da un uomo, ancora una volta un ex fidanzato. Ha chiesto di fare rumore, Elena, ha parlato di patriarcato e di violenza di Stato, ha invitato gli uomini a opporsi a un sistema culturale da cui traggono beneficio, anche quando non violenti, anche quando liberi da quegli schemi culturali che ne determinano la posizione privilegiata. Una risposta politica quella di Elena, che stride fortemente con la narrazione prevalsa nel mainstream (che invece ha fatto leva sull’emotività), e che immediatamente ha innescato la reazione delegittimante e offensiva di un consigliere leghista. Una risposta dissonante anche rispetto alla reazione del Governo, che ancora una volta si è rifugiato “nell’usato sicuro”: l’inasprimento delle pene e la delega alla scuola del compito di educare alle relazioni.

Infatti, mentre le piazze chiedono un cambiamento radicale sul piano culturale e sul piano sociale e declinano uno per uno gli ambiti d’intervento, rinfacciando al Governo proposte e provvedimenti che vanno in direzione opposta a quella della tutela delle donne (dall’attacco al diritto d’aborto, alla dilagante obiezione di coscienza negli ospedali, al carcere per le donne incinte Rom previsto nel nuovo “pacchetto sicurezza”), un protocollo siglato dal Ministro dell’Istruzione e del merito, dal Ministro della Cultura e dalla Ministra per la Famiglia, la Natalità e le pari opportunità dà avvio a un progetto che prevede l’introduzione nelle scuole secondarie di primo e secondo grado di corsi per “educare alle relazioni”. Soluzione facile, che evita di affrontare il tema del superamento del patriarcato e del modello di potere che ne sta alla base e che si struttura a livello politico, economico e sociale.

A spiegarne sommariamente l’organizzazione è una direttiva emanata pochi giorni dopo la firma del protocollo: si tratta di corsi di trenta ore da svolgersi in orario extracurriculare, rivolti a gruppi di alunne/i, coordinati da insegnanti che saranno – si assicura – adeguatamente formati (con il “supporto di organismi scientifici e professionali” e dell’Ordine degli psicologi). Coinvolto anche il Forum delle Associazioni dei genitori (FONAGS), chiamato a “controllare” le modalità attuative dei percorsi e ad apportare modifiche migliorative.

La proposta, presentata da un ministro incapace di spiegare perché per coordinare il progetto sia stato scelto il sondaggista Alessandro Amadori – che sulla violenza di genere ha idee che non sembrano proprio contestare il modello patriarcale – ancora una volta guarda alla scuola come un luogo in cui “addestrare” ragazzi e ragazze, spiegare loro quali sono i comportamenti impropri, facendo leva sulla paura delle conseguenze penali che derivano dalla violenza contro le donne.

Oltre a ignorare l’importanza di educare sin dalla scuola dell’infanzia al rispetto, all’affettività, alle differenze e al consenso, il progetto riporta, quindi, sul piano individuale (comportamenti, conseguenze, relazioni) ciò che invece è una (enorme) questione culturale. E riduce il ruolo della scuola a un’attività precettiva che nulla a che fare con la formazione critica e la riflessione culturale, trasformando i docenti in terapeuti più o meno consapevoli.

Una misura, questa, che appare tanto inefficace quanto coerente con l’orizzonte ideologico di chi la scuola l’ha progressivamente svuotata dei suoi contenuti culturali, consegnando a ragazze e ragazzi un mondo preconfezionato, nel quale accontentarsi di trovare il proprio posto come lavoratrici/ori e consumatrici/ori, e derubricando a conoscenza “non spendibile” quella derivante dallo studio di discipline che stimolano il pensiero critico, educano all’affettività e aiutano le nuove generazioni a pensare un mondo diverso da quello che stiamo consegnando loro.

Che la scuola debba fare la sua parte non c’è dubbio, facendo rete con le associazioni e le professionalità che di questi temi si occupano da decenni, ma recuperando la capacità di insegnare a ragazze e ragazzi a porsi domande, invece che indirizzarli in percorsi precostituiti e omologanti. Va detto che, nonostante la carenza di risorse, tante scuole in questi anni hanno avviato progetti di educazione di genere e attività mirate al contrasto della violenza e al superamento degli stereotipi. C’è chi ha cominciato a parlare di didattica di genere, a rivedere il canone letterario, a costruire la storia delle donne; chi ha aperto sportelli di ascolto, prodotto cortometraggi, organizzato manifestazioni e flashmob.

Con ritardo, quindi, ci si rivolge alle scuole, per di più con un progetto che arretra anche rispetto all’esistente. Nessuna traccia dell’educazione alle differenze (che invece era presente nelle Linee guida del 2015), nessun accenno all’esistenza di generi che non si riconoscono nell’eterosessualità e che pure subiscono violenza ogni giorno, spesso proprio nelle scuole.

Nel rumore rigenerante che sale dalle piazze italiane, in mezzo a parole chiare, obiettivi ben definiti e una richiesta collettiva di cui il Paese sente tutta l’urgenza, la voce della politica non si è sentita e i provvedimenti di un governo che solo pochi mesi fa non ha votato a favore dell’adesione dell’Ue alla Convenzione di Istanbul appaiono poco credibili e sembrano ripetere parole vuote. Come vuota era l’aula del Senato nel giorno del dibattito e del voto sulla legge contro la violenza di genere.

Katia Perna
Assemblea nazionale CGIL

Pubblicato il 28 Novembre 2023