La “madre di tutte le bugie”: le pensioni!

Eliana Como: “Il Governo getta finalmente la maschera e le illusioni, anche per quella parte dell’elettorato che ci aveva creduto, cadono, una ad una”

La legge di bilancio è in discussione alle Camere. È una manovra in deficit, ma senza alcuna idea di paese, di politica industriale ed energetica, di messa in sicurezza del territorio. In larga parte finanziata da spending review (altri tagli ai servizi) e da privatizzazioni. Dietro ai titoli con cui è stata annunciata, in realtà, non ha niente: non investe, non guarda al futuro, non risolve i problemi sociali del paese, abbandona la sanità pubblica, fa cassa sulle pensioni. Confermando al tempo stesso i principali asset di questo Governo: i grandi patrimoni e gli extraprofitti non si toccano, le tasse calano solo per alcuni ceti sociali, a partire da liberi professionisti e autonomi, mentre l’evasione fiscale è tollerata.

Così il Governo getta finalmente la maschera e le illusioni, anche per quella parte dell’elettorato che ci aveva creduto, cadono, una ad una. A partire dalla “madre di tutte le bugie”: quella sulle pensioni.

Ritorna l’aumento automatico con l’aspettativa di vita
Il nervo scoperto è proprio questo. Se la legge di bilancio verrà approvata, non soltanto resta la legge ‘Fornero’, ma si pongono le basi per un suo inasprimento. Da ora, come abbiamo scritto nei volantini, possiamo chiamarla legge Meloni-Fornero.
In particolare, la manovra ripristina il meccanismo di innalzamento dell’età pensionabile legato alla aspettativa di vita. Introdotto nel 2011 dalla legge Fornero, era stato bloccato nel 2019 dal primo Governo Conte.

Con la sua reintroduzione, l’effetto sarà immediato e colpirà gran parte di chi pensava di andare in pensione nei prossimi anni. Da gennaio 2025, infatti, non basteranno più 42 anni e 10 mesi di lavoro per andare in pensione (un anno in meno per le donne), ma aumenteranno a seconda del dato Istat.
Salvini e Durigon continuano a millantare i 41 anni per tutti, invocando il termine della legislatura. Come dire: “aspettate a giudicarci, ora vi alziamo l’età pensionabile, ma entro la fine del mandato, ve la abbasseremo”. La verità, però, è incontrovertibile: i 41 anni promessi non ci sono e da gennaio 2025 supereremo i 43.

Peggiorate ancora ‘quota 103’ e opzione donna
Anche la retromarcia su ‘quota 104’, prima annunciata poi tornata a quota 103, non basta a invertire il giudizio. Intanto, perché si resta a ‘quota 103’, vero, ma con pesanti penalizzazioni sull’assegno di pensione, calcolato tutto con il sistema contributivo (il contrario di quanto hanno fatto con i loro vitalizi, riportati per intero al retributivo!).

In più, chi andrà con ‘quota 103’, vedrà aumentate le finestre (7 mesi nel privato, 9 nel pubblico), cioè il periodo che passa da quando si matura il diritto di andare in pensione a quando l’INPS emette il primo assegno.

Detto questo, ‘quota 103’, introdotta l’anno scorso, non era già prima una soluzione. Il meccanismo, infatti, prevede di poter andare in pensione con 41 anni di lavoro, ma solo al compimento di 62 anni di età. Soprattutto nel nord, a 62 anni di età, un operaio ne ha già fatti 44 di fabbrica.

Anche le soluzioni per le categorie più deboli, i fragili e i lavori gravosi vengono peggiorate: 5 mesi in più per l’Ape sociale, ma soprattutto il pressoché totale azzeramento di “opzione donna”, già irrispettosamente trasformata in una sorta di “opzione mamma” nella scorsa manovra. Le donne senza figli si ritrovate con 3 anni in più di lavoro (due aggiunti nella manovra dell’anno scorso, uno in più, per tutte, quest’anno), oltre alla aggiunta di una serie di criteri che la rendono praticamente un ammortizzatore sociale più che una pensione anticipata, di fatto irraggiungibile (per ottenerla, le lavoratrici devono avere familiari non autosufficienti a carico, invalide al 75% o licenziate).

I tagli a chi lavora nel settore pubblico e alle rivalutazioni
Altra penalizzazione è prevista per i lavoratori e le lavoratrici pubbliche, principalmente personale della sanità, degli enti locali e delle scuole paritarie. Se hanno iniziato a lavorare prima del 1993, è previsto un taglio netto del futuro assegno di pensione, che potrà arrivare anche a migliaia di euro annui in meno. Va detto che su questo hanno annunciato una retromarcia. Vedremo: dopo tante bugie è lecito non crederci. E in ogni caso, non basterebbe a far digerire tutto il resto.
Peraltro, anche la promessa di portare le pensioni minime a 1000 euro si infrange in un niente di fatto, mentre con l’altra mano si tornano a tagliare gli assegni di tutti gli altri: già a partire da pensioni di 1.600 euro lordi al mese, la rivalutazione prevista sarà, infatti, inferiore all’inflazione.

Gli altri nodi irrisolti: salario, sanità pubblica, stato sociale
Anche sugli altri temi sociali, la legge di bilancio non dà risposte e, aldilà dei tanti annunci, c’è poco o niente. La spesa per la sanità pubblica, in rapporto al Pil e all’inflazione, diminuisce dello 0,3%, con 600 milioni dirottati sui privati in convenzione per ridurre le liste di attesa.

Anche sul versante della lotta all’inflazione non sono in arrivo provvedimenti commisurati all’emergenza sociale. Dopo aver tagliato il reddito di cittadinanza, e usato il CNEL per bocciare senza appello il salario minimo, si continua con il meccanismo degli sgravi fiscali. Il taglio del cuneo fiscale lo varò già il governo Draghi, è stato ripristinato nel 2023 per 7 mesi e ora viene rinnovato (con l’esclusione della tredicesima). È una misura non strutturale e soprattutto marginale in rapporto a tre anni di inflazione alle stelle, peraltro finanziato in deficit e con risorse che vengono comunque tolte allo stato sociale: ti do qualcosa in più in busta paga, ma ti riduco il salario sociale, tagliando i servizi pubblici e costringendoti a pagare per scuola, sanità e trasporti.

Stessa logica per l’accoppiamento delle fasce Irpef (l’aliquota del 23% viene portata fino a 28mila euro, con un beneficio residuale di pochi euro al mese) e per le risorse per i contratti pubblici, che a mala pena basteranno per gli aumenti una tantum sul 2024 (mentre i contratti sono scaduti già nel 2022 e l’inflazione è stata tra il 16 e il 18%).

Gli scioperi
Cgil e Uil hanno proclamato varie date di sciopero, articolate per regioni. Si comincia il 17 novembre con il centro e le categorie dei settori pubblici, il 24 novembre con il nord, il 1° dicembre con il sud, poi Sicilia e Sardegna, rispettivamente il 20 e il 27 novembre.

Non sarebbe stato meglio un’unica data di sciopero generale per fermare il paese? Certo, ma, per tirarsi dietro la Uil, la Cgil ha finito anche quest’anno per accettare il quadro da loro imposto, con lo spezzettamento degli scioperi.

Il punto, però, non è nemmeno questo. Lo sciopero generale non è salvifico nemmeno se deciso in un’unica giornata. Il punto è con quale convinzione e radicalizzazione si attraverseranno queste date; se si resta cioè nella logica di fare l’ennesimo sciopero di testimonianza o se ci si pone il tema di ricostruire le condizioni per una vera mobilitazione, anche tornando a fare quelle cose più o meno banali – ma apparentemente impossibili da tempo – come fare le assemblee, dichiarare sciopero, picchettare le fabbriche la mattina all’alba per svuotarle, portando poi i lavoratori in corteo. Se lo abbiamo fatto alla Same di Treviglio, impossibile non è. E speriamo sia di esempio ad altri.

Per anni la destra, e in particolare la Lega, ha fatto propaganda sulle pensioni, promettendo 41 anni per tutti e l’abrogazione della legge ‘Fornero’. Soprattutto nel nord manifatturiero, in particolare nelle fabbriche, tanti li hanno votati proprio per questa promessa e ora si sentono traditi. Non c’è allora occasione migliore per riprendersi questa bandiera, su cui, per molto meno, la Francia ha bruciato per mesi.

Eliana Como
Portavoce nazionale area ‘Le Radici del Sindacato’ CGIL

Pubblicato il 12 Novembre 2023