La Costituzione e lo Statuto dei Lavoratori

La Costituzione della “Repubblica fondata sul lavoro”, del 1° gennaio 1948, nel suo primo articolo poneva esplicitamente il solo lavoro come diritto fondamentale del nuovo ordinamento repubblicano. In precedenza la normativa fondamentale sul lavoro era contenuta principalmente nel codice civile fascista del 1942, assieme ad alcuni istituti, come la fissazione di limiti minimi di età per il lavoro minorile in cave e miniere, la riduzione del-la durata della giornata lavorativa a 11 ore per i minori e a 12 per le donne, il diritto di associazione sindacale e quello di sciopero, le prime normative antinfortunistiche e l’obbli-go di forme assicurative (1920), il divieto di mediazione di lavoro (caporalato), ma era del tutto insufficiente e restò tale anche dopo per la mancata definizione delle leggi attuative del dettato costituzionale.
Nei luoghi di lavoro si respirava un clima di intimidazione, di repressione, specie nei con-fronti dei lavoratori maggiormente impegnati sul fronte sindacale, mentre il sindacato era tenuto al di fuori del luogo di lavoro.
In questa situazione sempre più insostenibile, con una legislazione del lavoro ancora fon-data essenzialmente sul Codice civile fascista del 1942, il 12 ottobre 1952 il leader della CGIL, Giuseppe Di Vittorio, formulò l’idea di uno “Statuto dei diritti, delle libertà e della dignità dei lavoratori nell’azienda”, come una legge-quadro che riformasse l’intera mate-ria del lavoro, fornendo diritti e tutele effettive, in applicazione dell’articolo 1 della Costituzione. Le Acli di Milano avevano pubblicata l’inchiesta intitolata “La classe lavoratrice si difende” che denunciava la gravissima condizione di sfruttamento e di discriminazione ideologica dei lavoratori, ponendo il problema della cittadinanza in fabbrica, e poi, nel 1955, il Parlamento aveva promosso un’inchiesta parlamentare sulle “Condizioni di lavoro nelle fabbriche” che aveva denunciato la gravità della situazione. Con la spinta rifomista del primo centro sinistra, nel 1963, col primo governo Moro, vennero emanate delle norme che vietavano il licenziamento delle donne a causa del matrimonio, ma poi subì una battuta d’arresto col tentativo di colpo di stato del Piano Solo del luglio 1964 del Comandante dei carabinieri Giovanni De Lorenzo e dell’allora Presidente Antonio Segni. Vi fu poi una ripresa delle leggi sociali, in materia di infortuni, delle pensioni sociali e di anzianità e la legge 15 luglio 1966, n. 604, in materia dei licenziamenti, promossa unitaria-mente da Pci, Psi e Psiup. Nel 1967, il Pci, a firma di Pietro Ingrao, presentò una proposta di legge (n. 4227) “per la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori e per l’esercizio dei diritti costituzionali all’interno dei luoghi di lavoro”. Ma furono solo le lotte che hanno caratterizzato la stagione del risveglio sociale dell’“autunno caldo” del 68-72, sia dei lavoratori che della contestazione studentesca, che hanno dato una spinta decisiva sia all’unità sindacale, con la “triplice alleanza” sindacale di Cgil-Cisl-Uil (“marciare divisi, colpire uniti”) e l’elezione dei delegati di reparto, con la nascita dei Consigli di fabbrica eletti su liste unitarie e aperte anche ai non iscritti al sindacato, con una forte conflittualità, legata anche all’emergere della contestazione studentesca, caratterizzata da rivendicazioni fortemente egualitarie che portarono all’inquadramento unico tra operai e impiegati, all’abolizione delle gabbie salariali, al diritto allo studio con le 150 ore, allo sciopero generale per l’aumento delle pensioni e contro il caro-affitti, alla setti-mana lavorativa di quaranta ore, al diritto di assemblea in fabbrica, alla contrattazione aziendale, alla critica contro l’organizzazione capitalistica del lavoro ed il “regime di fabbrica”.
Ciò condusse anche all’innovazione legislativa volta a garantire e rafforzare i diritti dei lavoratori e ad assicurare la presenza del sindacato nei luoghi di lavoro (come era, almeno in parte, avvenuto per via contrattuale con l’accordo del settore metalmeccanico del gennaio 1970), incontrando però una tenace resistenza del padronato che non tollerava limitazioni alla discrezionalità del proprio comando in azienda.
Giacomo Brodolini, Ministro del lavoro e della previdenza sociale, promosse la “riforma delle pensioni”, (passate dal sistema “a capitalizzazione” a quello “a ripartizione”), l’abolizione delle “gabbie salariali”, e fece istituire, l’11 luglio 1969, una commissione tecnica nazionale per la redazione di una bozza di “Statuto dei diritti dei lavoratori”, presieduta da Gino Giugni che, portando a compimento la sua redazione, venne chiamato il “padre dello Statuto”, che venne approvato il 20 maggio 1970, dal successore di Brodolini dopo la sua morte, il ministro Carlo Donat-Cattin (Legge 300/1970, Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), provocando una reazione rabbiosa del padronato, a partire dalla Fiat, con “massicci licenziamenti di carattere politico e antisindacale”. La legge venne approvata con l’astensione del Pci, perché conteneva “carenze gravi e lascia ancora molte armi, sullo stesso piano giuridico, al padronato”, in particolare l’esclusione dalle tutele dei lavoratori delle aziende (sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto auto-nomo) fino a 15 dipendenti (5 nell’agricoltura) e la mancanza di norme contro i licenzia-menti collettivi di rappresaglia. La norma di gran lunga più importante è la “tutela reale” (art. 18), che impone il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo o senza “giusta causa” (per una inadempienza del lavoratore, tale da compromettere il rap-porto di fiducia col suo datore) o “giustificato motivo” (soggettivo, quando il dipendente non rispetta le direttive del datore di lavoro, od oggettivo, per problemi dell’attività produttiva).
Nel 2000 si è svolto un referendum per abolire le garanzie previste dall’articolo 18 ai la-voratori delle aziende con più di 15 dipendenti, ma non ha raggiunto né il quorum né la maggioranza dei voti validi.
La limitazione dei diritti alle aziende sopra i 15 dipendenti ha avuto effetti perversi: da un lato ha favorito la moltiplicazione delle vie di fuga attraverso la frammentazione sia fisica che contrattuale delle unità produttive, indebolendo il tessuto produttivo, e dall’altro, nelle situazioni sotto la soglia numerica, ha reso ineffettivo e di fatto non azionabile, per timore di rappresaglie, ogni diritto teoricamente esistente, da quello alla salute e alla sicurezza a quello di sciopero e alla non discriminazione per qualsiasi motivo, consentendo di fatto ogni abuso. Ciò ha determinato un numero inaccettabile di infortuni e morti sul lavoro, perché i lavoratori non erano in grado, per timore del licenziamento, di chiedere il rispetto delle norme sulla sicurezza.
L’unico modo possibile per aiutare i lavoratori a dire ‘no’ e sottrarli al ricatto padronale era quello di estendere la tutela reale (con la reintegra per i licenziamenti illegittimi e in-giustificati) abrogando le parole dell’art. 35 dello Statuto dei lavoratori che limitano alle imprese con più di quindici dipendenti l’obbligo di reintegrare nel posto di lavoro i lavora-tori licenziati senza giusta causa, per evitare le discriminazioni nell’esercizio dei diritti tra lavoratori di piccole e grandi imprese.
Con questo obiettivo il Dipartimento lavoro nazionale di Democrazia Proletaria, di cui ero il segretario responsabile, aveva indetto il relativo referendum abrogativo, raccogliendo le firme a ottenendo, con l’assistenza del costituzionalista Valerio Onida (poi divenuto Presidente della Corte Costituzionale), il giudizio di ammissibilità dell’Ufficio Centrale per il Referendum (UCR), costituito presso la Corte Suprema di Cassazione. Per avere un’idea del numero di lavoratori esclusi dai diritti, basti pensare che secondo l’Osservatorio Inps sulle imprese, nel 2015 il 93,78% delle imprese italiane con dipendenti (ovvero il 79,48% circa del totale), pari a circa 1,542 milioni 1,644 totali), col 37% dei lavoratori, ha meno di 16 dipendenti, una cifra enorme, che tende sempre più ad aumentare. Con l’obiettivo di fermare questo referendum, che ritenevano potesse raggiungere il quorum e la maggioranza dei voti, è stata approvata in tutta fretta, in Commissione, senza dibattito in aula, la legge 108/90, che ha cancellato il referendum e prevede, per i licenziati senza giusta causa, la reintegra per chi lavora in unità produttive con meno di sedici dipendenti solo se fanno parte di aziende con almeno cinquanta dipendenti complessivamente, al di sotto dei quali viene garantito solo un piccolissimo risarcimento (da due mensilità e mezzo ad un massimo di sei) senza reintegra. Inoltre, impone l’obbligo, al limite della costituzionalità, di arbitrato, prima di poter ricorrere al pretore del Lavoro, e l’esclusione degli apprendisti dal computo dei dipendenti validi per calcolare i suddetti limiti. Un emendamento peggiorativo, approvato in commissione, sancisce che l’imprenditore non debba neppure motiva-re il licenziamento al momento della sua intimazione, ma che debba farlo solo se il lavoratore glielo chiede nei quindici giorni successivi.
La cosa più stupefacente è stato il voto determinante del Pci e il sostegno unanime degli imprenditori e dei sindacati, Cgil compresa, che hanno così rinunciato a rappresentare e difendere gli interessi di 7 milioni di lavoratori, abbandonati senza difese all’arbitrio padronale, negando così i valori fondamentali che dovrebbero caratterizzare una forza di sinistra: l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, i diritti e le garanzie, la dignità dei lavoratori, che non sono una merce ma persone, la cui difesa sta a fondamento della nostra Costituzione.
Il referendum è stato riproposto nel 2003 da Rifondazione comunista, Verdi e sindacati di base, contro la crescente precarizzazione del lavoro, che ha visto il sostegno dei Cgil (an-che con uno sciopero) ed Arci, una posizione contraria di Cisl, Uil, Confindustria e tutte le organizzazioni imprenditoriali, di esponenti Ds e Margherita e del Governo (che, con un accordo separato con Cisl e Uil, intendeva sospendere la reintegra per 2 anni anche per le aziende oltre la soglia) e l’invito all’astensionismo da parte degli ex segretari generali della Federazione Cgil-Cisl-Uil, Trentin, Carniti e Benvenuto, ma non ha raggiunto il quorum, mentre l’analoga legge di iniziativa popolare della Carta dei Diritti universali della Cgil nel settembre 2016 è stata bocciata dalla Corte costituzionale.
Nel frattempo, in un clima di globalizzazione neoliberista, il cui costo è stato fatto pagare ai lavoratori, è iniziata l’erosione dello “Statuto dei lavoratori”, considerato un vecchio arnese che difende eccessivamente i lavoratori, togliendo libertà all’azione del padronato, che intende liberarsi dei suoi “lacci e lacciuoli”.
Ciò è stato spesso accettato anche dal sindacato che ha troppo spesso introitato, con la “politica dei sacrifici”, soprattutto di potere, quella stessa logica di subordinazione al mercato capitalistico. La stessa proposta di Marco Biagi di passare dallo “Statuto dei la-voratori” allo “Statuto dei lavori” indica un passaggio del lavoratore da soggetto ad oggetto, considerato un semplice ingranaggio della produzione, una merce, una variabile di-pendente e subalterna del processo lavorativo. Con la scusa di dare una maggiore “flessibilità” in uscita ad un lavoro troppo rigido, che in una situazione di elevata disoccupazione è solo un licenziamento con poche speranze di ritrovare lavoro, s’è creata una selva di contratti di lavoro “creativi”, con formule di fantasia ed una serie di scappatoie per non assumere personale in forma stabile, evadere i diritti, anche nelle aziende pubbliche, creando una precarizzazione contrattuale generalizzata, col “licenziamento facile”, del “pacchetto Treu” del 1997 e della legge 30/2003, detta anche legge Biagi, con le finte “partite Iva”, i parasubordinati, i lavoratori “a progetto”, quello delle “piattaforme” (che sono tutti in realtà lavoratori dipendenti economicamente ed organizzativamente, ma non tutelati come tali), i contratti a termine (che non rinnovati eludono il licenziamento, ma spesso c’è un “effetto soglia”, per cui i lavoratori vengono lasciati a casa in prossimità della scadenza per evitarne la stabilizzazione), il lavoro interinale, il lavoro “mobile”, quello “a chiamata”, lo “staff leasing”, la “flexsecurity” (che in una situazione di carenza di posti di lavoro è solo un licenziamento mascherato), i “patti in deroga”, le scissioni aziendali, le esternalizzazioni, i subappalti, i lavori atipici, ecc.
Negli ultimi decenni l’articolo 18 ha subito pesanti modifiche peggiorative, con le riforme del 2012 e del 2015, che mirano essenzialmente ad una demolizione della reintegrazione al lavoro nel caso di licenziamenti illegittimi ed ingiustificati. Nel 2012 la “Riforma del lavoro Fornero-Letta” (legge 28 giugno 2012, n. 92) ha imposto la conciliazione obbligatoria extragiudiziale e abolito la reintegra (tutela reale) anche nelle imprese oltre i 16 di-pendenti, lasciandola solo nel caso di insussistenza del fatto contestato. Il “Jobs Act” di Renzi (D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 23), che si applica solo ai contratti o conversioni di con-tratti stipulati dopo la data del 7 marzo 2015, ha ridotto il diritto alla reintegrazione, limi-tato in tutte le aziende di ogni dimensione al solo caso di insussistenza del fatto contesta-to per giusta causa, e ampliando l’area della tutela obbligatoria (indennità) in caso di licenziamento illegittimo.
Oggi occorre risalire la china: è necessario proporre, dopo cinquant’anni, una vera riforma del diritto del lavoro per ridare dignità al lavoro e migliorare le tutele dello “Statuto dei lavoratori”, adeguandolo ai grandi cambiamenti intervenuti nell’organizzazione sociale del lavoro, per promuovere nuove tutele e libertà dei lavoratori e delle lavoratrici, delle persone, perché il lavoro non sia una merce ed una condizione di schiavitù ma uno stru-mento libero e creativo dell’attività umana.

Giancarlo Saccoman

Pubblicato il 30 Maggio 2023