Il golpe USA che soffocò la giovane democrazia cilena

Sono passati 50 anni da quell’11 settembre del 1973: giorno in cui un golpe militare, ispirato e pianificato dagli Stati Uniti, soffocava la giovane democrazia cilena, bombardando il palazzo della Moneda e rovesciando il governo socialista di Salvador Allende. Il cui leader non uscì vivo dal Palazzo, morì da legittimo Presidente, eletto democraticamente dal suo popolo, in difesa della democrazia, avendo rifiutato di arrendersi ai golpisti.

Quando mi è stato chiesto di scrivere questo articolo, ho subito pensato di raccogliere una testimonianza da parte di Patricia, una mia cara amica cilena (ne riporto alcuni passaggi: “Ricordo che alle 9 del mattino, misero un soldato davanti alla porta della mia casa e dissero qui non entra nessuno. Portarono fuori mio padre e lo misero davanti ad un finto plotone di esecuzione. Perseguitarono mio padre solo perché era uno scrittore. E’ un ricordo terribile, avevo 16 anni. Ho votato per la prima volta a 32 anni, ero felice, la mia seconda figlia è nata in libertà. Le dittature stanno meglio con un popolo non istruito, più facile da gestire. Oggi i miei fratelli più grandi sono di estrema destra, io sono la più giovane, ma i miei figli e nipoti, sono socialisti rinnovati”).

Con Patricia abbiamo quasi la stessa età: io all’epoca avevo 17 anni, ero studente di liceo, impegnato politicamente e iniziavo in quell’anno una collaborazione con la CGIL, che avrebbe poi rappresentato il mio lavoro e la mia ragione di vita per i 50 anni che sono trascorsi fino ad oggi. La differenza è che lei votò per la prima volta 16 anni dopo, quando finalmente il Cile si liberò dalla dittatura di Pinochet; mentre io votai, per la prima volta, a 18 anni, nel 1975, due anni dopo, quando ci fu la grande avanzata del PCI alle elezioni regionali e la conquista di molte Regioni. E poi votai ancora nel 1976, quando ci fu il sorpasso sulla DC alle elezioni politiche.

Quello di Pinochet fu un regime spietato, che non solo calpestò con forza tutte le libertà democratiche, ma perseguitò oltre 40.000 persone, che furono incarcerate e torturate (parte di queste uccise ed altre, ancora oggi, desaparecide).

Furono migliaia anche coloro che riuscirono a scappare dal Cile per rifugiarsi in altri Paesi: molti compagni furono accolti in Italia dalle grandi organizzazioni sociali antifasciste, ed anche dai sindacati. In particolare, ho conosciuto e lavorato insieme ad uno di loro, che per quasi 20 anni svolse attività sindacale per la UIL di Viterbo, Renato Reies, il quale poi, alla caduta di Pinochet, tornò nel suo Paese, per dare un contributo alla sua rinascita democratica.

Ho scritto all’inizio che il golpe fu ispirato e pianificato dagli Stati Uniti: questa non è una ipotesi, ma è ormai una verità storica acclarata e documentata dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza degli USA, presieduto allora dal Presidente Nixon, che oggi sono state desecretate.

Del resto, nella strategia americana di dominio sul mondo, quel golpe non è stato né il primo né l’ultimo; ed in tante circostanze il condizionamento si è esercitato con vari strumenti più o meno invasivi, dalle sanzioni economiche, ai finanziamenti più o meno occulti, ai blitz, ai raid, all’utilizzo del terrorismo.

Si potrebbe fare un lungo elenco: da Cuba, all’Iraq, all’Afganistan, all’Egitto, alla Libia, ai Balcani, fino alla guerra ancora in corso in Ucraina.

Il golpe cileno scosse tutto il mondo, ma l’Italia in particolare. Perché soprattutto il PCI ed il suo amato Segretario Enrico Berlinguer vedevano – in quell’esperimento di governo di sinistra, affermatosi in elezioni democratiche e non con la guerriglia o moti insurrezionali, con un programma sociale non rivoluzionario, che prevedeva la sanità pubblica, la previdenza pubblica, il Welfare universale, il salario minimo – molte similitudini con il percorso del partito comunista italiano, con l’ipotesi di una contendibilità concreta del governo del paese come ormai possibile. Il fatto che fosse invece scattata inesorabilmente la conventio ad excludendum – il cosiddetto “fattore K”, secondo il quale gli USA avrebbero dovuto impedire l’alternanza di governo, con ogni mezzo ed a qualsiasi prezzo – chiamava in causa la situazione italiana. Cosa sarebbe successo in Italia se il PCI avesse vinto le elezioni? Fu proprio questa consapevolezza che portò Berlinguer a sviluppare le sue riflessioni sul “compromesso storico”, molto al di là della vulgata e della semplificazione che purtroppo è passata. Quella intuizione politica puntava infatti non ad un’alleanza o ad una große Koalition con la DC, bensì al patto che venisse superata la regola del “fattore K” nei confronti della sinistra al governo. Per arrivare a poter esercitare completamente la democrazia dell’alternanza e a rendere il governo del Paese effettivamente contendibile, con elezioni democratiche e con l’esercizio della sovranità popolare.

Anche Aldo Moro nutriva questa consapevolezza: infatti nel 1974 andò negli Stati Uniti a porre questo problema; e la risposta che ebbe da Henry Kissinger fu molto chiara: “Se non la smetti, farai una brutta fine”. E sappiamo esattamente qual è stata la fine del Presidente della DC…

Quindi il “fattore K” esiste ancora, anche se non ci sono più i comunisti, perché la conventio ad excludendum ha continuato a funzionare, in questi anni, nei confronti di vari esponenti della sinistra o addirittura del centrosinistra.

A cinquanta anni di distanza dai fatti dell’11 settembre, noi non abbiamo soltanto il dovere della memoria, ma anche quello dell’anamnesi che ci conduce al presente.

Pietro Soldini

Pubblicato il 19 Settembre 2023