Gaza, il “genocidio” che fa discutere

Durante la seconda sessione di dibattito sulla Palestina, a Cinisi, si relatori si sono interrogati sulla vastità della tragedia in corso

All’articolo 2 della ‘Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio’ varata nel 1948 è definito il termine ‘genocidio’: “Si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.

Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, ha introdotto il suo intervento – primo contributo della seconda sessione di lavori dedicata alla Palestina – ricordando il perimetro entro il quale si può (o si deve) utilizzare una parola che ha suscitato molto scalpore, nel mondo israeliano e tra i sostenitori della loro causa.

“Da giurista – ha argomentato Albanese – devo ricordare che il genocidio non riguarda necessariamente tutti i popoli oppressi, ma soltanto quelli che rientrano nella casistica dell’articolo 2 della Convenzione del 1948. L’elemento caratterizzante del genocidio – ha proseguito – è un doppio intento: compiere quegli atti terribili e distruggere un popolo, o una sua parte, in quanto tale. Ha quindi Israele commesso atti per distruggere in tutto o in parte i palestinesi a Gaza? La risposta è sì, a giudicare dagli strumenti militari utilizzati a Gaza dall’8 ottobre 2023, benché nulla possa ovviamente giustificare quanto è accaduto il giorno prima”.

Secondo la strategia militare utilizzata (tipo di target, armi in dotazione) è stato considerato legale e conforme al diritto internazionale uccidere sistematicamente civili, come intervento giustificato o giustificabile con l’obiettivo dichiarato di distruggere Hamas. “Ma nel caso di specie stiamo parlando di un partito politico che ha governato 16 anni – ha osservato Francesca Albanese – e non può dunque essere considerato tout court un obiettivo militare, trattandosi piuttosto di un obiettivo politico”. Da qui l’ingiustificabilità di agitare quella “causa” per dare un senso alle immani distruzioni operate dall’8 ottobre in poi. “E’ la logica stessa sottesa all’operazione militare in corso ad essere genocida – ha osservato la giurista – perché il genocidio è un processo, non un singolo atto, che punta alla disumanizzazione di coloro che vengono colpiti”.

Inoltre, ha specificato Albanese, “il colonialismo di insediamento è per sua natura genocida:

storicamente le strategie israeliane hanno avuto come motore la pulizia etnica nei territori occupati, da 56 anni; l’espansione territoriale di Israele, prima militare e poi civile, lo dimostra”.

Il processo di colonizzazione della Palestina nel corso dei decenni è stato inesorabile, ed è culminato nell’immane tragedia in atto negli ultimi otto mesi: “I palestinesi – ha ricordato la giurista – sono arrestabili senza capo d’accusa, costretti a vivere in un sistema di apartheid e sotto legge marziale; da mesi viene bombardata a tappeto una popolazione composta per metà da minorenni, con il 40% sotto i 14 anni; 19mila bambini sono rimasti orfani, e non si contano le amputazioni a causa dell’assenza di medicinali o di anestetici”.

Se non facciamo i conti “con la nostra amnesia coloniale – ha concluso Albanese – con tutti i privilegi che hanno accompagnato i bianchi, non riusciremo mai a prevenire i genocidi, così come in passato non siamo stati in grado di prevederlo in Ruanda”.

Di drammi umanitari si occupano ogni giorno anche ad Amnesty International, che è intervenuta a Cinisi per bocca di Chiara Di Maria, della sezione siciliana dell’associazione.

“Noi occidentali – ha spiegato Di Maria – possiamo purtroppo scegliere di chiudere gli occhi di fronte alle tragedie dell’immigrazione: perciò è importante costruire una coscienza condivisa in materia di diritto internazionale umanitario, ossia su una materia soft-low”, espressione inglese che si traduce in “diritto morbido”. La legislazione del settore, infatti, non prevede sanzioni ed è pattizia tra gli Stati, quindi senza particolari vincoli, fatta eccezione per gli embarghi (decisi comunque, eventualmente, dagli Stati e non da un organismo sovranazionale). Non esistono altre sanzioni contro gli Stati che violano il diritto internazionale e “per questo motivo – ha aggiunto la rappresentante di Amnesty – è tanto più importante l’intervento delle ONG nelle zone a rischio”.

Disumanizzazione, colonialismo, genocidi. La concatenazione di eventi drammatici “beneficia di un ‘climax’ ascendente”, ha puntualizzato Chiara Di Maria: “Ciò che è accaduto il 7 ottobre in Israele deriva dalle conseguenze di tutto ciò che è accaduto dal 1948 in poi”. E per chi cita il tema dell’apartheid, va rimarcato che la stessa associazione ha approfondito l’argomento piuttosto recentemente: nel 2017 Amnesty diffuse uno studio su quella odiosa pratica, definendola come crimine dell’umanità e rimarcando come non si manifesti sempre allo stesso modo. “Le ONG – ha osservato a riguardo l’esponente di Amnesty – hanno il compito di trovare le prove per poter argomentare i genocidi, come avvenne in Sudafrica, a proposito di apartheid: anche in quel caso il procedimento a livello internazionale è stato istruito raccogliendo prove e testimonianze, e allo stesso modo ci si sta muovendo in Palestina”.

Per comprendere fino in fondo l’atteggiamento degli israeliani verso i palestinesi, bisogna precisare gli aspetti salienti della discriminazione cui sono sottoposti ogni giorno: “Ci sono aspetti oggettivi e altri soggettivi – ha puntualizzato Di Maria – caratterizzati comunque dall’elemento psicologico dello Stato oppressore: ossia, i palestinesi subiscono la  programmazione di percorsi di disumanizzazione e di pulizia razziale, con azioni simili e prolungate di vessazione verso un un intero popolo, con gli annessi elementi di grande disuguaglianza”. La rappresentante di Amnesty ha portato alcuni esempi emblematici: l’espropriazione delle case ai palestinesi, senza titolo e senza motivo, mentre i coloni, all’interno dei territori occupati, beneficiano di procedure agevolate per ottenere la concessione di un terreno o il permesso di costruzione di un immobile. Dall’altro lato, a dei palestinesi può essere contestata come illegale la posa sul terreno di una tenda, la quale diviene così abusiva e può dunque essere espropriata o distrutta.

I palestinesi, per effetto di queste discriminazioni, si ritrovano reclusi in territori sovrappopolati, senza adeguata assistenza sanitaria, con difficoltà nel reperimento del cibo, divieto di movimento e di ricongiungimento familiare. Una situazione di apartheid, appunto, documentato da un rapporto di Amnesty International già nel febbraio 2022 (che resocontiamo a parte, in queste pagine).

Degli aspetti giuridici di questa tragedia è particolarmente esperto Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla ‘John Moores University’ di Liverpool e facente parte del team legale delle vittime di Gaza di fronte alla Corte penale internazionale. “A fine febbraio – ha ricordato il giurista – sono stato al valico di Rafah con una delegazione di parlamentari e insieme abbiamo potuto osservare le conseguenze dirette dell’assedio totale della Striscia, annunciato il 9 ottobre 2023 dal governo e iniziato successivamente: niente acqua, cibo, elettricità e 1.800 camion umanitari bloccati sotto il sole in un parcheggio perché magari, di tutto il loro carico, era stato identificato un solo prodotto considerato pericoloso”. E ancora: “I capannoni della Luna Rossa pieni di beni di prima necessità inaccessibili; sono state bloccate incubatrici, stampelle, sedie per invalidi, farmaci salvavita, anestetici, oltre ai generi alimentari o alle tende da campeggio, respinte perché dello stesso colore delle divise dei soldati di Hamas”.

Come inquadrare questa tragedia dal punto di vista del diritto internazionale? “Il diritto umanitario – ha provato a rispondere lo stesso Mariniello – vieta il ricorso alla fame altrui come ‘metodo di guerra’. Se uno Stato attua un simile abominio, viola gravemente quel diritto, oltre a commettere un crimine di guerra”.

Che fare, dunque? “L’Italia dovrebbe adottare sanzioni immediate verso Israele – ha ipotizzato il giurista – ossia valutare un embargo totale delle armi insieme ad altre misure sanzionatorie, smettendo di percorrere il doppio binario Ucraina/Israele, e ripristinando immediatamente l’erogazione dei fondi all’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente, ndr)”.

Le straordinarie preoccupazioni per le sorti del popolo palestinese colpiscono particolarmente coloro che vengono da quella storia e sono costretti a viverla da lontano. Come ad esempio Maya Issa, studentessa universitaria romana, nata in Italia ma figlia di palestinesi: “Che cosa è stato fatto per prevenire i fatti del 7 ottobre? – si è domandata – perché eravamo tutti di fronte ad una pentola a pressione pronta ad esplodere, e così è successo”. E’ necessario “decolonizzare persino il nostro linguaggio – ha aggiunto Maya Issa – ma i media ‘mainstream’ non lo fanno: tanto è vero che le trasmissioni invitano a piangere, per i loro morti, le famiglie israeliane, ma non quelle palestinesi”. Così come “i palestinesi vengono presentati come beduini o pastori, mentre soltanto una piccola parte del nostro popolo è definibile in quel modo. Noi in realtà siamo il popolo con il più alto tasso di laureati e la nostra battaglia viene trasmessa, di generazione in generazione, attraverso la letteratura, le scienze sociali o lo studio della giurisprudenza o della medicina”.

‘Due Stati due popoli’, conclude Maya Issa, “non è fattibile, perché Israele non lo vuole e perché non abbiamo confini, mentre siamo divisi nelle varie occupazioni”. La soluzione, secondo la studentessa “è un unico Stato, libero e laico dove possano vivere tutti, con il riconoscimento dei diritti di ciascuno”.

Pa. Rep.

Pubblicato il 26 Maggio 2024