Senza diritto internazionale tutto il mondo è in pericolo

Quando è scoppiata la guerra in Ucraina si è parlato del dovere dell’Occidente di sostenere con tutti i mezzi, soprattutto armamenti, Kiev. Perché, in caso contrario, la disparità delle forze in campo avrebbe decretato la sconfitta del più debole.

Chi si opponeva a questa logica di guerra portava un argomento molto forte, richiamando l’esempio del popolo palestinese, che da 70 anni subiva l’occupazione delle sue terre da parte di Israele, che è una potenza militare, senza che l’occidente sentisse il dovere d’intervenire per sostenere il più debole.

Sembrava una contraddizione così grave e palese, da non poter essere smentita, invece non soltanto veniva completamente rimossa ed oscurata nel dibattito pubblico, ma dopo il 7 ottobre si praticava con assoluta disinvoltura esattamente il contrario: l’Occidente interveniva nell’ennesimo conflitto israelo-palestinese, a sostegno del più forte. Si pratica il diritto alla difesa dello Stato d’Israele dal terrorismo di Hamas, senza rispettare alcuna delle regole di proporzionalità previste dal diritto internazionale. In sostanza, il diritto internazionale è stato disdetto dall’Occidente e si è addirittura messo in mora l’ONU, che è la più alta autorità sovranazionale a garanzia del diritto internazionale. Siamo ad un bivio della storia: l’Occidente si è fatto con le guerre e con le guerre si disfa.

Tutti i conflitti causati dall’Occidente in nome della civiltà occidentale, contro un nemico altrove (Vietnam, Corea, Iraq, Afghanistan, Siria, Libia), sono stati tutti, senza eccezione, guerre perse, o meglio, fallimentari, inutili spargimenti di sangue. L’unica guerra “giusta”, usata sempre successivamente come biglietto da visita, è stata quella contro la Germania nazista ed i suoi alleati fascisti, contro il male assoluto che non era altrove, bensì dentro l’Occidente.

A Gaza siamo ormai al 65° giorno di guerra, di bombardamenti e di azioni belliche sul terreno, con un dispiegamento di mezzi senza precedenti, compreso l’uso, per la prima volta, dell’intelligenza artificiale: basti pensare che l’algoritmo israeliano è in grado di segnalare 100 obiettivi militari al giorno, quando in precedenza il sistema ne segnalava 50 all’anno.

Siamo ad un milione di sfollati, alla distruzione di oltre il 50% del patrimonio abitativo ed urbanistico, comprese chiese, scuole ed ospedali; soprattutto si contano circa 18 mila morti di cui il 50% donne e minori. I media dicono timidamente che “in maggior parte sono civili”, ma in realtà sono tutti civili, perché, come si sa, a Gaza non esiste un esercito palestinese, non ci sono militari. Ci sono i guerriglieri di Hamas, ma quanti ne avranno uccisi? Secondo le fonti israeliane potranno essere circa 150-200, quindi l’1% del totale dei morti. Se la media è questa e se è vero (sempre secondo fonti israeliane) che Hamas conta 40 mila guerriglieri, quanti morti occorrono per sterminare Hamas? 4 milioni? Ma nemmeno ci sono 4 milioni di palestinesi a Gaza; ecco perché la guerra d’Israele, oltre ad essere la più grande tragedia contemporanea – che andrebbe chiamata con il suo nome più appropriato, ancora negato da falso pudore: “genocidio” – non potrà mai raggiungere il suo farneticante obiettivo di distruggere Hamas. E si tratta dell’ennesima prova provata che il terrorismo non si combatte con la guerra.

Purtroppo ci sono ancora commentatori disonesti che negano che la guerra abbia fatto 18 mila morti, sostenendo che tali cifre sarebbero figlie della propaganda di Hamas. Senonché l’unica fonte non è Hamas, ma anche le Nazioni Unite e molti giornalisti indipendenti. Del resto, in questa guerra ci sono altri due primati inediti, molto significativi: cioè il numero spropositato di morti (150 circa) fra giornalisti ed operatori umanitari che operano sotto l’egida dell’ONU.
Anche qui basterebbero un po’ di buon senso e realismo: se un raid di poche ore, ad opera di Hamas con armi leggere, ha prodotto 800 morti israeliani (e ci dobbiamo credere), quanti morti ci possono essere in 65 giorni di guerra con potenti mezzi militari di terra e d’aria?

Quindi, il tema non è la proporzionalità, né la stigmatizzazione di alcune azioni particolarmente odiose, come il bombardamento di un ospedale, l’interruzione di fornitura di acqua ed energia elettrica, o l’umiliazione dei prigionieri messi in fila, denudati, in ginocchio; il tema è che questa guerra, contro una popolazione inerme, senza un esercito e quindi senza la possibilità di esercitare il diritto alla difesa, è illegale (come se un paese decidesse di attaccare la Svizzera, che è un paese demilitarizzato, costituzionalmente neutrale).

Alcune dichiarazioni di Biden fanno intendere che gli Stati Uniti sarebbero molto critici nei confronti di Netanyahu: ma di quali critiche si tratta? Il punto non è criticare, ma fermare Israele ed imporre un cessate il fuoco. Invece, per ben due volte, nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU gli Stati Uniti hanno posto il veto alla proposta di risoluzione presentata da oltre 100 paesi per il cessate il fuoco.

Imporre il cessate il fuoco significherebbe incoraggiare un profondo cambiamento politico e Costituzionale dello Stato d’Israele; che non vorrebbe dire soltanto liberarsi da Netanyahu, ma anche avviare una profonda riforma democratica. Infatti un’altra narrazione falsa e strumentale dell’Occidente rispetto ad Israele è quella di dare per acquisito il fatto che sia l’unico Stato democratico del Medioriente: ma non è così. In realtà, Israele è uno Stato militare e confessionale: addirittura una legge del 2018 assegna una cittadinanza più forte agli ebrei, rispetto alle altre minoranze etnico-religiose che vengono discriminate linguisticamente, culturalmente, ed anche nella formazione e lavoro professionale. Quindi occorrerebbe usare in modo assolutamente appropriato un’altra parola, che invece viene espunta dal dibattito pubblico: apartheid.

Non è neanche più sufficiente richiamarsi alla proposta generica di “due Popoli due Stati”, senza modificare radicalmente il contesto generale e geografico della regione, compresa la situazione di espansionismo coloniale israeliano in Cisgiordania. Immaginando cioè il riequilibrio territoriale e delle risorse, tale da consentire non solo la massima autonomia ed indipendenza, ma anche il rientro dei profughi palestinesi, con un piano di rientro finanziato e sostenuto dalla comunità internazionale, così come avvenne nel 1948 per la popolazione ebraica. Oggi vale per i palestinesi quello che un tempo valeva per gli ebrei: “Una terra per un popolo senza terra”. Con l’obiettivo, oggi così lontano, di una pace per due popoli senza pace.

Pietro Soldini

Pubblicato il 16 Dicembre 2023