Le tante incognite sul futuro dell’ex Ilva

Sono passati 5 anni e 3 mesi dalla firma del verbale di accordo del 6 settembre 2018 tra Ilva Spa in Amministrazione Straordinaria, ArcelorMittal InvestCo Italy Srl e le OOSS; accordo che faceva seguito al contratto di affitto con obbligo d’acquisto da parte di Arcelor Mittal dei rami d’azienda di ILVA in AS, Taranto Energia Srl in AS e ILVA Servizi Marittimi S.p.a. in AS.

Dal 15 aprile 2021 la gestione è passata ad Acciaierie d’Italia, nuova partnership pubblico-privata. partecipata al 62% dal gruppo ArcelorMittal e al 38% da Invitalia. I risultati di questa gestione sono estremamente negativi tanto da poter compromettere il futuro della siderurgia a Taranto.
La situazione è critica per l’emergenza di liquidità, la bassissima produzione, che per quest’anno è pari a 3 milioni di tonnellate o poco meno, rispetto ai 6 milioni autorizzati; per la fornitura del gas appesa ad un filo a seguito dei mancati e ritardati pagamenti delle forniture a Snam Rete Gas. E poi, ancora, bisogna menzionare la cassa integrazione di 3000 lavoratori, o gli impianti ancora sotto sequestro giudiziario, seppur con facoltà d’uso, la marcia degli altoforni ridotta a solo due funzionanti.

E’ manifesta anche la forte crisi dell’indotto. Inoltre la nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), prende in considerazione solo il mantenimento del processo produttivo a ciclo integrale e non descrive gli interventi che si intendono effettuare per portare la produzione da 6 milioni di tonnellate, soglia produttiva attualmente autorizzata, ad 8 milioni. Anche perciò diventa chiara la volontà di ArcelorMittal di non procedere agli investimenti necessari per giungere ai livelli di produzione previsti ed alla decarbonizzazione del ciclo produttivo attraverso la sostituzione della produzione di acciaio da altoforno con quello prodotto da forni elettrici. Indice di questo disimpegno è l’assenza di qualsivoglia reazione ai ritardi nella realizzazione dell’impianto di pre-riduzione del minerale di ferro (DRI), da utilizzare nei forni elettrici.

Anche il Governo ci mette la sua parte, modificando le fonti di finanziamento dal PNRR al FSC e ritardandone la disponibilità. Di un vero e proprio piano industriale, del resto, non si riscontra una vera e propria disponibilità, con cui sia possibile confrontarsi, sia in termini occupazionali che in termini ambientali. Tracce di linee guida, ma non di piani veri e propri piani sono rinvenibili negli “addendum” del già citato verbale d’accordo del 6 settembre 2018, laddove sono indicati solo impegni ed obiettivi per titoli, neanche lontanamente assimilabili ad una pianificazione di massima. Nulla è detto sulla configurazione impiantistica e sulla tempistica degli interventi per passare dalla produzione a ciclo integrale alla produzione da forni elettrici né sulla modalità di produzione con il ciclo ibrido. Ma a questo punto è pensabile che un piano ci sia, sebbene non conosciuto. Anche perché, sulla questione del piano industriale, il dimissionario presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabè, affermava il 3 gennaio dell’anno in corso di non esserci un problema di risorse. Quindi per la riconversione dello stabilimento di Taranto erano disponibili i finanziamenti necessari al completamento del piano in 10 anni, per trasformare la più grande acciaieria d’Europa in stabilimento green. (Corsera, 23/01/23). Questo ‘stop and go’, tutte le vicende di quest’anno, in aggiunta al travaglio dei Decreti Legge salva ILVA degli anni precedenti, ha ulteriormente aggravato il senso di sfiducia della cittadinanza giungendo anche a toccare la forza lavoro di AdI e dell’Indotto. Ma non si vede perché non sia possibile procedere sulla transizione verso una produzione d’acciaio “green”, passando per una fase intermedia che dismette il carbone ed utilizza il gas, in attesa di una raggiunta economicità nella disponibilità delle fonti rinnovabili, apportando però dall’inizio della riconversione consistenti miglioramenti alla VIIAS (valutazione integrata dell’impatto ambientale e sanitario).

La produzione di acciaio “green” è in corso di implementazione in quattro realtà europee: Svezia, Finlandia, Germania ed Austria. L’alternativa a questa prospettiva è la chiusura, cui corrisponde un difficilissimo impegno di ambientalizzazione: vedasi la sorte di Bagnoli, insieme a grossissimi problemi occupazionali. La gestione di ArcelorMittal, singolarmente e poi in partnership, ha messo a rischio la continuità della fabbrica. A tutto questo si deve aggiungere che non è impensabile che ArcelorMittal, dall’uscita di scena dell’acciaio italiano abbia tutto da guadagnare. Questo spiegherebbe l’intensificarsi della conflittualità nei rapporti all’interno di Acciaierie d’Italia tra ArcelorMittal ed Invitalia.

Ora si tratta di decidere sul futuro dell’ex ILVA. Il nodo è sempre lo stesso: in attesa del rilancio dell’azienda servono almeno 320 milioni per mantenere la continuità aziendale. Invitalia è disponibile per la sua parte, ma ArcelorMittal non è disponibile a mettere a disposizione, per la sua parte, le risorse necessarie per continuare a mantenere in vita l’ex ILVA, dopo le confuse attribuzioni di responsabilità e decisione tra i vari ministeri interessati (D’Urso, Fitto, Giorgetti), il Governo non può più tergiversare. Deve ascoltare le proposte del sindacato, espresse in una conferenza stampa a Palazzo Chigi: il Governo non si faccia più tenere in ostaggio da ArcelorMittal ed intervenga per prendere la gestione dell’azienda e col controllo dei lavoratori.

RDS Taranto

Pubblicato il 16 Dicembre 2023