Istruzione: un rinnovo insufficiente e con pochi reali risultati

Pubblichiamo la sintesi dell’Ordine del giorno presentato dall’area programmatica ‘Le Radici del sindacato’ all’Assemblea Generale FLC del 17 luglio

Il CCNL Istruzione e ricerca 2019/22 è stato un rinnovo difficile. I diversi governi, dopo il blocco dei primi anni Dieci, hanno sviluppato un modello di fatto in cui i CCNL pubblici sono rinnovati a posteriori. Così è avvenuto per 2016/18 e 2019/21, così avverrà per il 2022/24, non essendo neppure stanziate le risorse. Solo il recupero dell’inflazione, per l’insieme della pubblica amministrazione, necessita di oltre 20 miliardi, ben oltre i saldi della DEF. Il nuovo CCNL dovrà esser conquistato con una mobilitazione determinata e prolungata.

Il CCNL 2019/2022 non è ancora chiuso completamente. Il rinnovo è infatti su tre tempi: l’anticipo economico dello scorso dicembre (95% degli aumenti trasversali); la firma di questa estate (la restante parte economica e normativa); alcune sequenze tra cui ordinamenti e risorse di un intero settore (Enti Pubblici di Ricerca). Questo spacchettamento è negativo, diminuendo la capacità di coinvolgimento della categoria, il potere contrattuale e quindi la possibilità di incidere sul testo. Lo abbiamo detto a dicembre, lo ribadiamo in questo passaggio.

L’esperienza di questa trattativa indica quindi l’urgenza di modificare i modelli contrattuali. Il CCNL Istruzione e ricerca si chiude, non completamente, oltre 18 mesi dopo la sua scadenza, in una fase economica e sociale completamente diversa, segnata da una ripresa dell’inflazione che colpisce in particolare i redditi bassi (nei suoi livelli di ingresso, ATA, TAB e CEL, alle soglie della povertà). Il sistema triennale basato su TEM, TEC e IPCA depurata (imposto da padronato, CISL e UIL nel 2009 e alla fine accettato anche da CGIL) ha disarticolato la contrattazione, con punti di caduta diversi che hanno moltiplicato le divisioni del lavoro. Per questo è necessario tornare ad un sistema unificante, a base quadriennale e con rinnovi economici biennali, nei quali siano garantiti meccanismi generali ed automatici di adeguamento all’inflazione.

Le difficoltà non sono solo di metodo. Tutti i rinnovi pubblici sono stati caratterizzati da particolarità settoriali e professionali, con partite economiche aggiuntive differenziate per inquadramenti o ministeri di riferimento. Questa dinamica è inglobata nello stesso CCNL Istruzione e ricerca, con aumenti complessivi differenziati tra i settori: intorno al 5% nella scuola, al 7% nell’università, con la possibilità che si arrivi a superare il 10% nella ricerca (quando si affronterà la sequenza sugli ordinamenti).

Questo risultato è largamente inferiore agli obbiettivi. Oltre 1.300.000 lavoratori e lavoratrici di scuola, università e AFAM, infatti, hanno aumenti molto diversi da quelli posti dall’allora segretario generale FLC. Il rinnovo 2016/18 era stato interpretato come semplice acconto (un contratto-ponte, si era detto) e ci si proponeva un consistente recupero in grado di avvicinarsi agli stipendi europei o, almeno, a quelli dei restanti settori del pubblico impiego. Cioè, ci si era posti l’obbiettivo di 350 euro lordi mensili in due rinnovi. Gli aumenti medi nella scuola sono intorno ai 110 euro (124 per i docenti), in università intorno ai 164 euro (in tabellare 137, altri 27 in accessorio su progetti finalizzati). La distanza è evidente, senza considerare l’inflazione. Questi, poi, sono aumenti comprensivi dell’anticipo erogato a dicembre. Solo i circa 25mila lavoratori e lavoratrici della ricerca si potranno avvicinare all’obbiettivo, se saranno recuperati i 45 milioni necessari agli enti non vigilati MUR (tra cui ISS, ISPRA, ENEA, ISTAT), sempre senza considerare l’inflazione.

Il CCNL ha visto risultati utili e anche importanti. Ad esempio:
• a livello generale, il riconoscimento delle identità alias nei processi di transizione di genere;
• nella scuola le tre giornate di permesso per i precari, anche se solo quelli annuali, l’impegno per i gruppi di lavoro operativo per l’inclusione (GLO) nel monte ore delle attività collegiali (40h); l’obbligo di riunioni in presenza degli organismi collegiali se deliberanti;
• nell’università il 50% delle risorse di settore sul salario fondamentale, con un’attenzione ai salari bassi; l’innalzamento della retribuzione al livello 3 e 2 delle vecchie categorie B e C, cancellando così i livelli più bassi (un’iniziativa, a dir la verità, che avrebbe dovuto esser di tutta la categoria e non solo del settore); il primo riconoscimento di un luogo di confronto nazionale col MUR e un primo timidissimo, quasi implicito, riconoscimento delle mansioni di insegnamento nei profili CEL;
• negli AFAM il ricercatore a tempo indeterminato e del tecnico di laboratorio, nel quadro del positivo processo di statizzazione e stabilizzazione (con il rischio però che le revisioni radicalizzino l’autonomia degli enti, in forme anche peggiori dell’università).

Il rinnovo prevede una revisione organica dell’insieme del testo, in sé positiva, ma che avrà bisogno di un’attenta considerazione. In questo quadro si colloca la complessa revisione degli inquadramenti del personale ATA, con l’importazione nella scuola di modelli della pubblica amministrazione (sempre più impostati secondo le logiche del new public management), e quindi aspetti critici, come l’allargamento del perimetro delle mansioni e l’incipiente formazione di specializzazioni e livelli gerarchici.

Gli elementi utili o positivi non cambiano però l’impianto negativo del contratto, che si esplicita non solo nei suoi assetti economici, che, ma anche in arretramenti normativi. Ad esempio:
• nella scuola, l’inserimento di tutor, orientamento, coordinamento e nel sostegno della ricerca educativo-didattica e valutativa nel CCNL, regolati da appositi CCNI. Questo è un passaggio che riteniamo grave e sbagliato, perché porta nel CCNL sistemi ancora contestati dall’insieme della comunità scolastica, consolidando sistemi di gerarchizzazione salariale di merito, di fatto premiali;
• l’anonimato delle informazioni da parte dei DS alle RSU sull’utilizzo delle risorse del fondo d’istituto, recependo le indicazioni antisindacali del garante della Privacy, chiudendo così negativamente una battaglia che da anni si portava avanti per poter conoscere l’effettivo utilizzo delle retribuzioni aggiuntive;
• la formazione viene positivamente riconosciuta nel tempo di lavoro (attività funzionale), ma deve esser retribuita con compensi anche forfettari: negando nei fatti quello che si afferma per principio.
• nelle università, rimangono vigenti, anche se con una formulazione apparentemente diversa i principi di Brunetta (i premi diventano trattamenti economici correlati alla valutazione della prestazione); inoltre, l’ARAN su indicazione MUR ha impedito ogni inclusione, impedendo di regolare il contratto di ricerca e di prevedere il tecnologo a tempo indeterminato;
• nella ricerca si arriva a normare il lavoro agile anche per ricercatori e tecnologi, prevedendo quindi anche per loro patti individuali che; nonostante le dichiarazioni di principio ribadite nell’art 140, rischiano di ledere nei fatti l’autonomia e soprattutto gli spazi di autodeterminazione del proprio tempo di lavoro.

Per queste ragioni, cioè sia per il negativo impianto del CCNL nella sua parte economica, sia per gli elementi negativi non riequilibrati da altri specifici avanzamenti, si ritiene necessario non sottoscrivere il rinnovo contrattuale 2019/21 dell’istruzione e della ricerca, aprendo immediatamente una vertenza per richiedere risorse in grado di difendere il reale potere di acquisto dei salari e per ottenere avanzamenti in tutti i settori sia dal punto di vista dell’inclusione del precariato, sia dal punto di vista del contrasto alle logiche premiali e di gerarchizzazione retributiva portate avanti da governo e ARAN.

Pubblicato il 25 Luglio 2023