Israele e Palestina: quale stato di diritto?

Le grandi manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese e per il cessate il fuoco, nelle più importanti capitali dell’Occidente e del mondo arabo non hanno fermato la furia vendicativa di Israele, ma hanno vinto la battaglia contro la narrazione del pensiero unico dell’occidente.

C’è un resto del mondo nei confronti del quale non possiamo esercitare alcun dominio e alcuna presunta “superiorità”, né civile, né militare, né politica, né morale. Ed esiste anche in Occidente – nonostante la potenza manipolatoria che vorrebbe una narrazione ed un codice di valori da pensiero unico – un pensiero alternativo che vive e lotta.

Le vicende del popolo palestinese sono un punto di riferimento emblematico ed una vera e propria bandiera intergenerazionale per milioni di persone, che hanno una comune visione di valori e diritti di libertà individuale e collettiva, di autodeterminazione della persona umana e della comunità. La diaspora di quel popolo (circa 12 milioni di persone, di cui 7 vivono esuli in altri paesi, più 5 confinati e profughi sul loro territorio, che somiglia più ad una riserva che ad un paese vero e proprio) rappresenta una ferita purulenta del mondo moderno postglobale.

Si dice: Gaza è libera e autogovernata dai palestinesi. Ma come può essere libero un territorio circondato da filo spinato elettrificato, dal quale si può uscire solo con il permesso di Israele per andare a lavorare (a servizio) in quello stesso paese? Come può essere libero un territorio in cui vivono 2,2 milioni di persone di cui la metà sono profughi, in una striscia di terra di pochi km, con una densità di popolazione fra le più alte al mondo, totalmente dipendente da Israele per il fabbisogno idrico ed energetico?

Quanto potrà durare, ancora, l’argomento pedissequo del diritto di difesa dello Stato d’Israele? Quando è, giorno dopo giorno, sempre più evidente che quello Stato esercita il suo “diritto” senza nessuna limitazione, avendo a disposizione la seconda potenza militare, dopo gli USA, del Patto Atlantico (ed essendo una delle pochissime potenze nucleari al mondo). Un paese con un apparato di Servizi Segreti e forze speciali che non ha paragoni; con un esercito di leva militare obbligatoria di 24 mesi, con richiami di addestramento e motivazionali annui, fino a 60 anni di età (con un militarismo di Stato, dunque, che non ha eguali).
Mentre è proprio il popolo palestinese che non ha diritto a difendersi, che non ha uno Stato, che non è riconosciuto e rappresentato all’ONU (l’Autorità Palestinese ha prerogative limitate, non le è consentito di formare una milizia, ma soltanto un corpo di polizia amministrativa non armata). Soltanto Hamas è stata finanziata, sostenuta ed armata, proprio da Israele e dalla Nato, allo scopo di indebolire l’Olp di Arafat e l’Autorità Palestinese: è l’unica, quindi, ad avere un braccio armato e, quindi, terroristico.

Gli atti di terrorismo efferato cui abbiamo assistito vanno condannati senza se, ma nessun terrorismo è stato storicamente in grado (ed è realisticamente in grado) di mettere in pericolo l’esistenza di uno Stato, tanto meno quello d’Israele. Ecco perché, se si può ammettere e non concedere, come direbbe Totò, un accostamento fra Hamas ed Isis, è assolutamente sbagliato. Così come rappresenta una vera e propria corbelleria accostare Hamas al nazismo. Che era un regime, una potenza di Stato e con quel titolo ha potuto scatenare una guerra che è costata oltre 20 milioni di morti, con lo sterminio del popolo ebreo e rom.

Sulla base di questa inconfutabile valutazione – sulla asimmetria di questo conflitto fra Israele e Palestina – è evidente che il soggetto da mettere sotto osservazione dal punto di vista dei pericoli di revanscismo bellicistico, sterminatore e genocida, non può essere certo la Palestina. E non serve, anche in questo caso, agitare un altro argomento fragile, superficiale e strumentale come quello di qualificare Israele come l’unica democrazia presente in quella regione del Medio Oriente. Perché uno Stato così militarizzato, ed anche molto religiosamente ispirato sul piano Costituzionale, non garantisce a nostro avviso un sufficiente profilo democratico.

Oggi finalmente anche molti filoisraeliani cominciano a porsi il problema di come uscire da questo massacro. Non soltanto perché siamo arrivati a quasi 10mila morti, 30mila feriti, quasi 1 milione di sfollati e quasi il 50% del patrimonio edilizio ridotto in macerie nella striscia di Gaza – a fronte delle violenze omicide quotidiane dei coloni in Cisgiordania, assistiti dall’esercito, che cominciano a contare centinaia di vittime, rendendo così arduo continuare ad evocare il riferimento a quel 7 ottobre ed ai mille morti israeliani – ma anche perché non si capisce dove si vuole andare a parare. Con il concretissimo rischio di veder concludere l’ennesima guerra con un altro esodo palestinese e la conseguente occupazione di ulteriore territorio da parte di Israele.

Un argomento che viene usato da Israele e dai filoisraeliani, per giustificare la reazione rabbiosa di queste settimane ed i bombardamenti a tappeto, è che “lo vuole Hamas”. Ma se si volesse davvero sconfiggere Hamas, bisognerebbe innanzitutto non fare quello che Hamas vuole, non fare il suo gioco.
Allora occorrerebbe trattare per liberare gli ostaggi; e, purtroppo, bisognerebbe farlo con chi li ha presi, cioè Hamas. Che ha avanzato due proposte: liberare tutti a fronte di un ‘cessate il fuoco’, scambiando gli ostaggi con i prigionieri palestinesi. Netaniahu ha però risposto ‘no’. Diventa quindi difficile mistificare e appare chiaro che è Israele che non vuole trattare. Non vuole farlo con Hamas perché sono terroristi, non vuole farlo con Abu Mazen (ossia l’Autorità Palestinese), perché non conta nulla (dopo che lo stesso Netaniahu ha fatto di tutto per delegittimarlo).

Alcuni giorni fa, molti giornali italiani invocavano un ‘Mandela palestinese’ per ricostruire una leadership, una guida autorevole del popolo in grado di favorire la pace e l’autodeterminazione. Ignorando però che nelle carceri israeliane ci sono molti leader palestinesi. Uno in particolare, molto carismatico, risponde al nome di Barghouti: se liberato, potrebbe certamente offrire un valido contributo.

Molti degli opinionisti da talk-show appaiono bugiardi o quantomeno ignoranti, e vanno spiegano piuttosto che Israele è disponibile a trattare, tanto è vero che da qualche anno sarebbe impegnato nella sottoscrizione dei cosiddetti accordi ‘di Abramo’, che vengono decantati come intese di pacificazione del conflitto israelo-palestinese. E che Hamas, con il suo attacco terroristico del 7 ottobre, vorrebbe proprio contrastare. Ma se si volesse approfondire davvero l’argomento, si scoprirebbe che gli accordi di Abramo rappresentano l’esatto contrario di ciò che appare. Sono infatti finalizzati, dietro ad un convincente supporto economico-commerciale con vari paesi arabi sotto l’influenza degli USA soprattutto per interessi petroliferi, ad un riconoscimento dello Stato d’Israele così com’è oggi, con i confini usurpati e addirittura con il riconoscimento di Gerusalemme come Capitale.

Infatti, il maggiore propiziatore di quegli accordi è stato Donald Trump, che ha già trasferito a Gerusalemme l’ambasciata Americana; e, udite udite, chi si è pronunciato contro gli accordi di Abramo? Non soltanto Hamas, ma anche l’assemblea dell’ONU, con la risoluzione ES 10/19 approvata a larga maggioranza (128 a favore, 9 contrari, 35 astenuti).

A questa risoluzione gli USA di Trump (quelli dell’assalto a Capitol Hills) non soltanto hanno votato contro, ma hanno addirittura deciso di togliere dal bilancio il finanziamento dovuto all’ONU, indebolendone ulteriormente il prestigio e l’autorità, oltre alla sua capacità operativa.

È chiaro che decidere di disinvestire sull’ONU, spostando le risorse sulla NATO, significa scegliere la guerra e non la pace.

Per sperare e lavorare concretamente per una risoluzione del conflitto israelo-palestinese, occorrerebbe invece applicare proprio le risoluzioni dell’ONU: non servono trattative, bensì atti unilaterali di Israele volti a rientrare nella sfera della legalità internazionale. Appare come l’unica strada che possa portare ai ‘due Popoli due Stati’ e alla pace, magari per un paio di generazioni. Per poi pensare ad uno Stato forte e grande, interetnico, interculturale e laico unificato, dove i due Popoli possano convivere fraternamente e riconoscersi in una terra comune.

Pietro Soldini

Pubblicato il 12 Novembre 2023