“Non siamo ingranaggi muti”
A nove mesi dal reintegro di Francesco Loria, licenziato Newcoop a Carini (PA), il protagonista propone una lucida riflessione sul settore della logistica, nervo scoperto del capitalismo contemporaneo
Nove mesi sono trascorsi dal mio reintegro, un intervallo sufficiente a distillare, con lucidità e distacco, il significato di un accaduto che ha solcato la mia esistenza professionale e umana.
Il settore della logistica nella grande distribuzione alimentare, nervo scoperto del capitalismo contemporaneo, si svela come un labirinto di contraddizioni: un universo dove la razionalità produttiva si trasforma in irrazionalità sociale, e il progresso tecnico si misura al ribasso, in un inarrestabile corsa al depauperamento della dignità del lavoro. La filiera, concepita per ottimizzare tempi e costi, genera invece una esistenza tossica. Gli appalti consecutivi, veri e propri cerchi concentrici di opacità, non solo erodono i diritti contrattuali ma disegnano una geografia del lavoro dove la precarietà diventa norma, e la deroga agli accordi nazionali si trasforma in un rituale sistematico. I salari, ridotti a elemosina, tradiscono non solo un’ingiustizia economica, ma una profonda violazione etica: il corpo del lavoratore, ridotto a merce usa e getta, viene logorato tra sollecitazioni fisiche estreme dallo stress termico alle patologie muscolo-scheletriche e ambienti di lavoro che sfidano ogni principio di salubrità. Persino la formazione professionale, teorico baluardo di crescita, diventa teatro di una beffa orchestrata: fondi pubblici evaporano in corsi fantasma, mentre il futuro del lavoratore si dissolve in promesse non mantenute. In questo scenario, il Meridione d’Italia emerge non come eccezione, ma come emblema di un malessere globale. La povertà, complice di un ricatto occupazionale perpetuo, permette alle organizzazioni criminali di insinuarsi nelle pieghe dell’economia legale, normalizzando una presenza che inquina il tessuto sociale e politico.
La ‘ndrangheta, cosa nostra, la camorra, la sacra corona unita non sono metastasi estranee al sistema, ma cellule di un organismo malato che prospera nella simbiosi tra legalità e illegalità, tra bisogni disperati e offerte corrotte. Il mio percorso personale, segnato da un licenziamento ingiusto e da una reintegrazione conquistata, riflette la tensione tra resistenza e resa. Essere sindacalista nella FILT CGIL, oggi, significa navigare in un mare in tempesta: da un lato, l’onda lunga del neoliberismo che trasforma i diritti in privilegi revocabili; dall’altro, la necessità di radicare la lotta in un orizzonte di speranza concreta. I momenti di sconforto, le paure, le “sportellate” subìte, non sono debolezze, ma cicatrici che testimoniano l’autenticità del cammino. La questione referendaria citata, con il suo potenziale abrogativo, non è mero strumento legale, ma un atto politico che interroga le coscienze: fino a quando accetteremo che il progresso si misuri in base alla capacità di comprimere salari e sicurezza? La risposta, credo, risieda nella capacità di reincantare la solidarietà di classe, trasformandola da memoria storica a progetto collettivo. Le lotte odierne dal contrasto al caporalato, alla difesa dello Statuto dei Lavoratori sono tasselli di un mosaico più ampio, che include la riconquista della sovranità sul tempo di vita, la lotta alla finanziarizzazione dell’economia, e una nuova alleanza tra generazioni. Il futuro non è scritto, ma si costruisce nella tensione tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Ogni pavimentazione sconnessa, ogni bancale sollevato senza protezioni, ogni accordo pirata, ci ricordano che la posta in gioco è l’umanità stessa del lavoro. E in questa sfida, il Sud con la sua storia di resistenza e sfruttamento può diventare laboratorio di un nuovo modello, purché si smetta di guardarlo come periferia, e si riconosca invece come specchio di contraddizioni globali.
La mia storia, come quella di milioni di lavoratori, è un frammento di un racconto più grande: quello di chi rifiuta di essere ridotto a ingranaggio muto, e sceglie, ogni giorno, di alzare lo sguardo nonostante la foschia dell’orizzonte. La fotografia che ritrae il mio ingresso al turno di lavoro nel primo giorno di reintegro è stata scelta non per caso, ma per il suo valore allegorico e politico, riconosciuto con immediatezza dai lavoratori e dai compagni della Filt CGIL. Nell’immagine, indosso una maglietta su cui campeggia un’Araba Fenice, mitico uccello che risorge dalle proprie ceneri: emblema di una resistenza che non si spegne, ma si rigenera attraverso le prove più dure. Tra le mani, stringo un pacchetto di popcorn: gesto apparentemente ludico, ma in realtà metafora densa di significato. Non si trattava di una provocazione sterile verso la dirigenza Newcoop, bensì di un atto di sfida trasfigurato in simbolo. I popcorn, fragili e insieme esplosivi, evocavano la nostra capacità di trasformare il calore della pressione subita in un’apertura collettiva, in un *pop* di condivisione. Quell’oggetto quotidiano, elevato a vessillo, era un segno tangibile di gratitudine verso chi aveva tessuto attorno a me una rete di solidarietà durante i mesi di buio, trasformando l’isolamento in una battaglia corale. La Fenice, intanto, bruciava silenziosamente sulla stoffa: monito e promessa. Ogni dettaglio di quella giornata il tessuto logoro, la luce fredda dei neon nell’ingresso dello stabilimento, il sorriso trattenuto mentre oltrepassavo il cancello era diventato un tassello di un racconto più grande. Quella foto non immortalava un ritorno, ma una ripartenza. Non celebrava una vittoria individuale, ma sanciva un patto: nessun passo indietro nella difesa della dignità, nessuna resa al ricatto della precarietà. Era il manifesto visivo di una verità spesso dimenticata: persino nei luoghi più spogli di poesia, la lotta può indossare i panni della bellezza. La Fenice, con le sue ali di fuoco, e i popcorn, umili semi ribolliti in qualcosa di nuovo, parlavano la stessa lingua quella della trasformazione. E in quel dialogo muto tra mito e quotidianità, tra sacro e profano, risuonava l’eco di una domanda essenziale: cosa siamo disposti a diventare, dopo essere stati ridotti in cenere?
Francesco Loria
Pubblicato il 31 Maggio 2025