No alla guerra, sì ai diritti: serve uno scatto della Cgil
Intervista ad Eliana Como sulle sfide poste dall’attualità: dal sostegno alle vertenze (ad iniziare da GKN) al grido di allarme sulle conseguenze del riarmo europeo e sugli effetti del decreto ‘sicurezza’
In un anno sono successe tantissime cose. Dalla scorsa riunione del Coordinamento nazionale dell’Area ‘Le Radici del Sindacato’ (un anno fa a Livorno) al recentissimo appuntamento del 27 giugno a Roma – volendo soltanto citare gli avvenimenti più significativi – ci sono stati gli scioperi dell’autunno 2024, mentre la “terza guerra mondiale a pezzi” di cui parlava papa Francesco si è allargata sempre più (con l’ignobile carneficina in atto a Gaza), sono state elette le RSU nella scuola e nel settore pubblico, si è votato sui cinque quesiti referendari su lavoro e cittadinanza e il governo ha varato un decreto “sicurezza” che rende tutti e tutte più insicuri. Insomma, i temi su cui ragionare con la Portavoce nazionale dell’Area, Eliana Como, sono molti e altrettanto complessi.
Da dove partire, dunque?
Partirei dall’approccio che abbiamo voluto dare alla nostra assemblea: avevamo bisogno di discutere con franchezza, di ascoltarci vicendevolmente fino in fondo, per ragionare sulle straordinarie e continue emergenze che l’attualità politica e sociale ci pone davanti e anche per capire come la CGIL può o dovrebbe affrontarle. E, soprattutto, riconfermare il nostro ruolo e la scelta che, insieme, abbiamo fatto allo scorso congresso.
La prima emergenza assoluta è certamente quella dei venti di guerra che soffiano sempre più forte. Con l’Europa che pensa di affrontarli con una corsa al riarmo del tutto insensata…
Pensare di destinare il 5% del PIL alle spese militari significa non rendersi conto dell’ecatombe cui stiamo andando incontro. Un’ecatombe per i diritti sociali, per i servizi pubblici, per l’ambiente e il lavoro. Sta accadendo qualcosa di surreale: l’Europa ha scelto di inchinarsi ai voleri di Trump, accettando senza condizioni l’aumento delle spese militari facendola passare come una scelta inevitabile. Ma non è così. La Spagna ha detto ‘no’, dimostrando che un’alternativa era possibile. Pensare invece di destinare 700 miliardi in dieci anni – e mi riferisco soltanto all’Italia – in armi, munizioni, mezzi, missioni, stipendi militari significa aver perso come orizzonte quello della ricerca della pace e di voler infilare un intero Paese in una strada senza ritorno. Altri 300 miliardi dovremmo poi destinarli alla cosiddetta ‘sicurezza nazionale’: infrastrutture, ferrovie, porti, cybersicurezza, difesa dei confini. In totale quasi 1.000 miliardi in dieci anni. Una cifra enorme, insostenibile, semplicemente inimmaginabile. E come verrebbero reperiti questi soldi? Ce lo ha spiegato chiaramente il Fondo Monetario Internazionale: nuove tasse o tagli draconiani ai bilanci pubblici. Tutto ciò che costruisce diritti e futuro rischia dunque di essere smantellato per finanziare una nuova corsa al riarmo. La mobilitazione di ‘Stop RearmEurope’ è perciò fondamentale: il 21 giugno è stata tracciata una strada, ora dobbiamo allargarla e consolidarla. Insieme possiamo fermarli.
Sullo sfondo, per citare due aspetti che tengono assieme i drammi dell’attualità e la politica, la carneficina dei palestinesi a Gaza e le ambiguità di parte della sinistra sul tema della guerra.
Il genocidio a Gaza, i 60mila morti tra cui numerosissimi bambini e bambine, è un macigno sulla coscienza dell’Occidente. La complicità dei governi europei con Netanyahu è semplicemente vergognosa e inaccettabile. Il fatto che centinaia di migliaia di cittadini e cittadine, esponenti di associazioni o militanti politici e sindacali abbiano alzato con forza la loro voce indignata è un primo passaggio importantissimo, anche per mettere i governi di fronte all’inaccettabilità di distogliere tra i 700 e i 1.000 miliardi di risorse pubbliche da scuola, sanità, lavoro e ambiente. Dopodiché navighiamo in un mare tempestoso e le contraddizioni non mancano: ad esempio, la CGIL ha tenuto in passato posizioni ambigue, partecipando alla manifestazione proposta da ‘Repubblica’ in piazza del Popolo a Roma, lo scorso 15 marzo, che aveva lo scopo di favorire la ‘mobilitazione’ europea su guerra e pace in modo, appunto, molto ambiguo. Ecco: quello è stato un errore e abbiamo fatto bene a opporci con nettezza. In questi giorni la CGIL ha votato un ordine di giorno, da noi condiviso, contro il riarmo e ha partecipato al percorso che ha portato alla manifestazione del 21 giugno. Bene, ma non se la sente ancora di condividere la nostra proposta di provare a costruire le condizioni per uno sciopero europeo contro il piano continentale di riarmo. Insomma, il movimento europeo contro la guerra è in via di costruzione e procede ad ampi passi. Serve coraggio anche da parte della nostra Organizzazione.
Chi si è mobilitato in questi mesi ha talvolta cercato di contemplare lo sguardo internazionale con la necessità di tenere alta la bandiera dei diritti: pensiamo al decreto ‘sicurezza’ o alle vertenze da sostenere.
L’approvazione d’urgenza del DL sicurezza è grave, nel merito e nel metodo. Bene hanno fatto le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici di varie città, in particolare Bologna, a sfidare le nuove norme, disobbedendo in massa, durante le manifestazioni per lo sciopero generale della categoria. Quando una legge è ingiusta e persino anticostituzionale (lo ha ribadito la Cassazione in questi giorni) è nostro dovere cambiarla, agendo sui rapporti di forza. Dopo 40 ore di sciopero, è legittimo e naturale che i lavoratori e le lavoratrici provino ad alzare il tiro. Impedirlo significa criminalizzare il dissenso e impedire il diritto costituzionale a manifestare. Non ce lo possiamo davvero permettere. Se anche uno solo di quelli che hanno sfilato il 20 giugno a Bologna sulla Tangenziale dovesse essere denunciato, dovremo mobilitarci tutte e tutti. Per le stesse ragioni, siamo mobilitati a difesa del presidio di GKN. Il tribunale fallimentare di Firenze ha deciso lo sgombero: imboccare quella strada è gravissimo. L’11 ed il 12 luglio dobbiamo essere lì, fisicamente, per sostenere anche con i nostri corpi quella lotta. Non soltanto il suo altissimo valore simbolico ma anche, nel concreto, il loro piano industriale, che ha raccolto nel corso degli anni un incredibile sostegno e appoggio da un vasto movimento, anche internazionale, e dal territorio che circonda la fabbrica di Campi Bisenzio.
Nel corso di luglio la CGIL dovrà affrontare in modo non formale l’esito referendario dell’8 e 9 giugno. Come dovrà farlo?
Noi votammo contro l’ipotesi di intraprendere la strada referendaria, un anno fa, in Assemblea Generale CGIL, dichiarandoci comunque pronti a garantire tutto il nostro impegno se si fosse deciso di proseguire su quella strada. E così è stato. L’esito della consultazione ci ha dato purtroppo ragione, ma abbiamo perso tutti e si tratta dunque di riflettere insieme sulla sconfitta. Dobbiamo chiederci perché abbiamo affrontato quel percorso e anche domandarci come mai in così tanti abbiano deciso di non recarsi alle urne. Ciò detto, come intendiamo da oggi in poi proseguire sulla strada dei grandissimi temi oggetto dei quesiti referendari? Come intendiamo interloquire con i tanti che comunque hanno votato e hanno votato ‘sì’? La risposta a queste domande non può essere, a mio avviso, la convocazione di una Conferenza di programma o di organizzazione, come è stato proposto. Ben venga la discussione interna, non ci siamo mai tirati indietro. Ma serve un piano B, sul terreno della mobilitazione sociale, a partire dai rinnovi contrattuali e dalla legge di bilancio del prossimo autunno, in particolare sui temi che riguardano le pensioni, la sanità e lo stato sociale. Oltre alla guerra, il riarmo e le politiche di repressione. Altrimenti, fuori da noi, rischiamo di non essere capiti e di non dare uno sbocco alle tante energie e alleanze che abbiamo mobilitato intorno al referendum.
Insomma, quello del ruolo della CGIL nell’affrontare i grandi temi che ci circondano è un tema assolutamente cruciale…
Dobbiamo chiederci come mai tante vertenze siano ferme, così come perché, ad esempio, la Funzione Pubblica non ha abbia organizzato alcuna mobilitazione reale sui contratti separati. Dobbiamo interrogarci sulla direzione che abbiamo intrapreso, sui ritardi in merito alle vertenze contrattuali, sull’inerzia a proposito del tema-pensioni, su cui invece dovremmo incalzare le contraddizioni del governo, sui drammi quotidiani in materia di sanità, a fronte dello smantellamento pezzo a pezzo dei servizi pubblici. Ancora stiamo aspettando la CISL sulle urgenze che affliggono le lavoratrici e i lavoratori o le cittadine e i cittadini che assistono allo smantellamento graduale e progressivo dello stato sociale? Per questo, il nostro ruolo come Area è ancora decisivo, forse oggi più di prima. Abbiamo mantenuto una credibilità, in questi anni, sia dentro che fuori dalla CGIL, nel rapporto con i movimenti. Non sempre, va detto, questo si traduce in consenso organizzato. Ma dobbiamo insistere su questa strada, continuando, come abbiamo fatto in questi anni, a tenere con rigore le nostre posizioni, ma sempre restando al merito delle scelte. Come abbiamo fatto in FIOM in questi mesi. Se la categoria si impegna con 40 ore di sciopero per il rinnovo contrattuale e arriva a sfidare il decreto ‘sicurezza’ come a Bologna, noi ci siamo. Il problema resta, casomai, perché non c’è questo stesso livello di mobilitazione nelle altre categorie. E perché, dopo il Referendum, non c’è una proposta di mobilitazione reale in campo da parte della Confederazione. Resto poi convinta che abbiamo una priorità in tutto questo e riguarda il quinto quesito referendario, quello della cittadinanza: presentarlo nel corso delle assemblee è stato problematico, ma proprio per questo è stato giusto farlo ed è dovere morale del sindacato proseguire quella campagna dentro i posti di lavoro. La logica securitaria del DL sicurezza si alimenta anche di quella diffusa narrazione di ostilità contro i migranti che tocchiamo con mano nelle assemblee. Se vogliamo fermare il DL sicurezza, dobbiamo sfidarlo, come hanno fatto i metalmeccanici, ma al tempo stesso, mettere in discussione, alla base, la logica repressiva su cui si basa e la paura – spesso il razzismo – che lo alimenta.
Pubblicato il 1 Luglio 2025