Con i lombrichi del suolo
La morte di un bracciante nel Pontino divenne un caso nazionale: un “racconto” per non dimenticare
Quando la signora Claretta – borghese incallita e cliente coriacea dell’ipermercato di via Piave – rufolando nella cassa dei pomodori San Marzano IGP dell’Agro pontino, mentre cercava il pomodoro perfetto per cucinare una caprese, piatto preferito di quel ghiottone di suo marito pensionato, dopo averne tumefatti una dozzina, trovò il braccio di Abdul Suleiman Bashir, non si scompose più di tanto. Si diresse trottando coi suoi piedini trentacinque al servizio clienti e si rivolse stizzita al commesso:
«È intollerabile! C’è un arto umano nella cassa dei pomodori».
Il commesso, di natura più soffice e di stomaco più delicato della vegliarda, quando si affacciò sulla cassa dei pomodori non riuscì a trattenere il vomito e, nello sgomento generale, imbrattò tutta la corsia del frutta e verdura.
Arrivò la polizia e prese in consegna il braccio. Venne portato al laboratorio per essere analizzato dalla scientifica, chiuso in una busta di plastica trasparente datata e etichettata, come quelle del reparto macelleria.
Ben presto la notizia ebbe diffusione nazionale. Tutti i telegiornali ne parlavano, i cronisti accorsero davanti all’ipermercato. La signora Claretta ripeteva davanti ai microfoni:
“È intollerabile!» .
Il braccio fu analizzato e la polizia decretò che apparteneva a un lavoratore agricolo che lo aveva perso (perso?) nel corso di un incidente sul lavoro. Il consorzio che si occupava della coltivazione dei pomodori diramò un comunicato ufficiale: Ci scusiamo con la clientela per l’increscioso inconveniente. Sottolineiamo che la qualità delle nostre verdure va di pari passo con la nostra etica professionale.
Si venne a scoprire che quel braccio era di proprietà del bracciante Abdul Suleiman Bashir, appunto. Nessuno aveva denunciato pubblicamente l’accaduto, per paura di ritorsioni, ma c’erano alcuni testimoni che nel più grande segreto erano andati in caserma e avevano spifferato alla polizia:
«Quello è il braccio di Abdul Suleiman Bashir», avevano detto.
Un commissario andò a verificare l’attendibilità di quell’informazione. Abdul Suleiman Bashir abitava con la moglie e quattro figli in una bidonville alla periferia di Latina. Una baracca di lamiera dove, quando soffiava il libeccio, sembrava di stare dentro al reattore di un aereo. Era disteso su una branda, cereo, col moncherino fasciato e ancora sanguinante.
«Cos’è successo? Come ha fatto il suo braccio a finire nella cassa dei pomodori IGP?» chiese il commissario.
Abdul Suleiman Bashir aprì gli occhi e rispose sussurrando:
«Riportatemi il braccio. È mio, lo rivoglio».
Ma in quello stesso istante un pettirosso cantò fuori dalla finestra e nessuno riuscì a sentire la voce di quel povero cristo, tanto aveva parlato piano. A fatica, ripeté ciò che aveva da dire.
Certo, che strana sensazione doveva star vivendo Abdul Suleiman Bashir, disteso in orizzontale sul calar del sole. Lui lì, a guardare il soffitto di lamiera, e il suo braccio distante pochi chilometri, chiuso in un sacco trasparente, etichettato e datato come un petto di pollo. Gli risposero che non si poteva, che c’erano indagini in corso – controlli sanitari, perizie dell’ispettore del lavoro, analisi microbiologiche – così funzionava in Italia, così era la procedura. Il suo braccio l’avrebbe riavuto quando sarebbe stata chiarita la dinamica dell’infortunio. E poi a che cosa gli serviva, ormai?
Abdul Suleiman Bashir chiuse gli occhi e non li riaprì più.
La morte del bracciante divenne un caso nazionale. Le indagini dimostrarono che era una sera di giugno – all’ora in cui le rondini fanno ritorno alle grondaie e le lucciole danzano sopra alle spighe del grano – quando il suo braccio venne tranciato dal macchinario che smistava i pomodori. Forse la fatica, forse la distrazione, forse il buio, dissero. All’ospedale non lo si poteva portare, il padrone non voleva problemi. Abdul Suleiman Bashir non aveva un contratto, era irregolare, una paga da fame e una situazione abitativa degradante. Lo fece montare sul camion, bestemmiò sgommando, lo scaricò davanti alla sua baracca.
«Scendi e fatti mettere un po’ d’acqua ossigenata», gli disse il padrone.
Poi i fari nella notte e altre bestemmie.
Lo aveva trovato così il commissario, dopo due giorni di agonia – dopo che la signora Claretta aveva rufolato indecorosamente nella cassa dei pomodori – rattoppato dalla moglie, in fin di vita.
Ora giaceva nella sua baracca, coperto da un telo di lino, lavato e unto di olio, smembrato in due parti, come Ettore trascinato nella polvere, sbranato dai cani degli Achei, senza pietà, davanti agli occhi della sua famiglia.
L’opinione pubblica era sconvolta. Erano in tanti come lui che lavoravano senza contratto, quindici ore al giorno per due euro all’ora. Erano in tanti, invisibili e instancabili, a riempire casse di succosi pomodori, approdati in clandestinità, chissà come e chissà dove.
Umanità da lamiera, le braccia dietro al nostro stomaco.
Ci furono manifestazioni, braccianti in bicicletta con le casacche catarifrangenti, sigle sindacali, la politica compatta. Il padrone fu arrestato – aggravanti generiche, omicidio colposo, omissione di soccorso, attenuanti generiche, buona condotta, lavori socialmente utili.
Anche la cultura si mobilitò. Un artista contemporaneo espose al MAXXI un’opera plastica dal titolo “Indignatevi!”. Un braccio di poliuretano espanso penzolava dal soffitto, indicava il cielo e perdeva gocce di sangue che riempivano incessantemente un capiente barattolo di pomodoro. Il giorno del vernissage, dopo il terzo bloody mary, alcune signore apparvero effettivamente molto indignate.
Poi lentamente la questione scivolò via dal dibattito pubblico, come una barchetta di carta trascinata dalla corrente. Qualcuno tornò a parlare della qualità indiscussa del made in Italy, qualcuno sostenne che se Abdul Suleiman Bashir fosse rimasto al suo paese avrebbe ancora il braccio attaccato. Il marito della signora Claretta disse che quella era una terra di lavoratori, che prima c’erano le paludi ma poi il Duce le aveva fatte bonificare, che ormai nessuno aveva più voglia di faticare.
Lo squittio dei topi, acufene della ragione.
La salma di Abdul Suleiman Bashir fu rispedita senza braccio al paese di origine, non poteva trovare sepoltura in terra straniera. Così funzionava in Italia, così era la procedura. Il suo corpo morto fece la stessa tratta che aveva fatto il suo corpo vivo in clandestinità ma questa volta in modo regolare, con tanto di cordoglio del governo. A sua moglie e ai suoi figli fu accordato il permesso di soggiorno e venne concessa la rendita vitalizia dell’INAIL.
Un giorno di fine estate il braccio di Abdul Suleiman Bashir venne restituito alla famiglia. Era lontano migliaia di chilometri, il resto del suo corpo – oltre il mare, oltre il deserto, al di là della luce e del pensiero.
La moglie aprì il sacchetto di plastica e constatò che l’arto si era ben conservato. Il suo odore era pungente ma il colorito persisteva roseo. Al polso c’era ancora l’orologio Casio che ogni mattina alle tre e quarantacinque suonava la sveglia.
La donna si fermò a pensare a quell’orologio, che aveva continuato a suonare ogni mattina alle tre e quarantacinque, chiuso in una busta di plastica trasparente datata e etichettata, nel buio di un laboratorio, dove nessuno poteva sentirlo, dove non c’era nessuno da svegliare.
«Ricorda che tuo padre è stato un gran lavoratore», disse al figlio maggiore mentre gli infilava l’orologio al sottile polso.
Fuori dalla baracca di lamiera, le piante dei pomodori che suo marito aveva seminato in primavera – pomodori San Marzano IGP – la stessa semenza di quelli che raccoglieva con gli altri braccianti e che un giorno si era fatto scivolare in tasca per piantarli nell’orto di casa.
Senza farsi vedere dai bambini, la donna scavò una fossa e seppellì ciò che restava di suo marito all’ombra delle piante.
Ora riposa e svanisce, il braccio di Abdul Suleiman Bashir, con i gigli dei campi, con gli uccelli del cielo, con i lombrichi del suolo.
Andrea Minuti
and.minuti@gmail.com
Pubblicato il 26 Novembre 2024