Addio al Papa degli ultimi: profeta di pace e di giustizia
Francesco ha abbracciato con coraggio la visione della Teologia della Liberazione, nella sua forma più evangelica: quella che grida contro le ingiustizie, che lotta per i popoli oppressi, che non separa la fede dalla storia
Tante cose sono state dette e scritte in queste ore sulla morte di Papa Francesco. Il mio pensiero si unisce a questi ricordi con lo sguardo di chi, vivendo e agendo dentro l’esperienza sindacale, tra le persone in carne e ossa, ha cercato in questi anni di “masticare lo stesso pane” della vita quotidiana, fatta di fatiche, di lavoro, diritti negati, speranze collettive. È da lì che ho provato a leggere il suo percorso: non come osservatore esterno, ma come parte di un cammino umano e sociale condiviso.
È stato il pastore degli ultimi, dei poveri, dei diseredati. Un Papa che ha scelto il nome di Francesco non per caso, ma per vocazione: povero tra i poveri, voce di chi non ha voce.
Ha abbracciato con coraggio e coerenza la visione della Teologia della Liberazione, nella sua forma più evangelica: quella che grida contro le ingiustizie, che lotta per i popoli oppressi, che non separa la fede dalla storia. Non è un caso se ha beatificato Oscar Romero, il vescovo martire di San Salvador, ucciso perché difendeva i poveri contro la violenza dei potenti. “Romero non è patrimonio di pochi, ma di tutto il popolo di Dio”, disse, rompendo decenni di silenzi e ambiguità.
A sinistra, in tanti avremmo auspicato che su alcuni temi cruciali — come l’aborto e l’eutanasia — Papa Francesco si esprimesse con parole più chiare, concrete e coraggiose. Non per negare il valore della vita, ma per dare piena coerenza a quella misericordiosa attenzione alla sofferenza e alla libertà dell’individuo che è stata il cuore del suo pontificato. Avremmo voluto vedere riconosciuto, anche a livello dottrinale, il diritto a scegliere in situazioni estreme di dolore o di impossibilità. Il silenzio o la cautela su questi temi, pur comprensibili nel contesto delle tensioni interne alla Chiesa, hanno limitato a mio modesto parere l’efficacia trasformativa del suo messaggio.
E allo stesso tempo, è giusto dirlo: gran parte della schiera politica italiana e non, in nome della purezza ideologica, ha mantenuto posizioni elitarie, più attente a costruire coerenze astratte che a rappresentare realmente i sentimenti e le contraddizioni vissute dal popolo. Ma il popolo non ha mai torto nel suo percorso di ribellione ai potenti — nemmeno di fronte alle religioni ideologiche e assolutiste. Comprendere questa tensione tra fede, contraddizione e desiderio di giustizia è il compito di una sinistra che vuole parlare alle persone, non solo alle proprie convinzioni.
A più riprese ha denunciato “il capitalismo che uccide”, un sistema che, diceva, “pone al centro il denaro e non la persona”. Ha attaccato le logiche del profitto senza scrupoli, le diseguaglianze feroci, l’economia dello scarto che sacrifica intere popolazioni. “Questa economia uccide”, ripeteva, con parole da profeta, inascoltato da chi aveva troppo da perdere.
Amava la vita ma senza mai brandire la fede come una clava. La sua difesa della concordia, del dialogo, dell’amore familiare, è stata ferma e insieme misericordiosa. Ha teso la mano a tutti, divorziati risposati, emarginati, persone ferite dalla vita, dicendo: “La Chiesa non è una dogana ma la casa del Padre.”
Indimenticabile il suo gesto dirompente verso le persone omosessuali, davanti al mondo intero: “Se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”
Una frase che ha segnato una svolta, non dogmatica ma pastorale, aprendo uno spazio di ascolto e accoglienza dove prima c’erano solo silenzi o condanne. Un invito a costruire ponti, non barriere. A vedere la persona prima del pregiudizio.
Ha lavorato senza sosta per l’unità delle Chiese cristiane, dialogando con gli ortodossi, gli evangelici, gli anglicani. Ha cercato ponti, non muri. Per lui, la diversità non era una minaccia, ma una ricchezza da ascoltare e comprendere. Anche verso le altre religioni, il suo atteggiamento è stato sempre di rispetto e apertura: “Siamo tutti fratelli”, diceva, citando il titolo della sua enciclica più profonda, Fratelli Tutti.
Con iniziative concrete ha fatto arrivare la voce della Chiesa in Africa, in America Latina, nei luoghi dove la sofferenza si fa più dura. Dall’Etiopia alla Colombia, dal Congo al Venezuela, ha lottato per la giustizia, per i diritti, per la pace. Non con le parole soltanto, ma con viaggi faticosi, con incontri con i poveri, con messaggi scomodi.
E dentro la Chiesa, ha portato avanti una battaglia coraggiosa contro la corruzione. Ha aperto i dossier, chiuso conti, tolto privilegi. Ha parlato chiaro: “Non si può servire Dio e il denaro.” Ha voluto una Chiesa trasparente, pulita, al servizio del Vangelo, non dei poteri.
È stato un uomo di Dio per gli uomini, come raramente si è visto. Un pastore che ha saputo dire parole forti con voce mite. Un pontefice che ha messo l’amore prima del dogma, la misericordia prima della condanna, la pace prima del potere.
“Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade,” diceva, “piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze.”
Infine, va detto che la sua idea di Chiesa – dialogante, inclusiva, in cammino – ha incontrato anche resistenze e conflitti interni, a volte strumentalizzati fino al punto di sfiorare minacce di scisma. Eppure, mai ha risposto col pugno duro o col dogma come arma. Ha sempre scelto la via del confronto, del paziente ascolto, della riforma possibile.
Che il prossimo Papa sappia raccogliere e rilanciare questo testimone. Che non venga meno il coraggio di sporcarsi le mani nel mondo. Che sappia parlare alle vite, non ai palazzi. Che non dimentichi mai che la giustizia sociale, la pace, l’accoglienza e la libertà sono i veri nomi della fede vissuta.
Adriano Sgrò
Pubblicato il 30 Aprile 2025